giovedì 27 dicembre 2012

Un titolo ingombrante: il nome della rosa

Un narratore non deve fornire interpretazioni della propria opera, altrimenti non avrebbe scritto un romanzo, che è una macchina per generare interpretazioni.

Ma uno dei principali ostacoli alla realizzazione di questo virtuoso proposito è proprio il fatto che un romanzo deve avere un titolo.



Il nome della rosa - Umberto Eco
Edizione Bompiani
Postille Pag. 507

sabato 8 dicembre 2012

IN DUECENTO GIORNI

Lo sciacquio delle onde e il rumore che esse provocavano, sbattendo e abbattendo gli ostacoli che sbarravano il loro passaggio, le urla degli uomini, che, lungo il fiume, tentavano di rinforzare gli argini per proteggere quel che restava del borgo, il rombo dei tuoni e i bagliori dei lampi, che illuminavano a tratti la miseria di quella gente, riecheggiavano nella vallata.

Se l’inverno appena trascorso se n’era andato con il suo carico di morte per le febbri stagionali, la primavera si stava preannunciando altrettanto fosca.

Ormai le baracche dei tintori ,o quel che ne restava, galleggiavano sul fiume, e i corpi delle capre, con gli addomi colmi d’acqua, scivolavano vorticosamente verso valle, come lenzuoli gonfiati dall'acqua sfuggiti dalle mani d’una lavandaia poco attenta.


Jerome, che per tutta la notte aveva lavorato a ricostruire gli argini, con l’acqua fino alle cosce, continuava a ripetere automaticamente gli stessi movimenti, affastellando pietre, terra e rami che subito scivolavano via nel gorgo impetuoso.

Eppure quella era stata una terra felice, il vecchio vi aveva cresciuto i suoi sei figli, mettendo a poco a poco in piedi la arazzeria più famosa di Francia.
Quel fiume in piena, una volta, era stato un crocevia di mercanti d’arte e di chiatte ricolme di filati che provenivano da Parigi o addirittura dall'Italia, di nobili imbellettati con i taschini pieni di soldi da spendere, di chiatte di gitani, che dai loro barconi richiamavano la gente per vendere i loro utensili introvabili.
E in quei ricordi gli parve di riconoscere il suono del bel canto di Pilar.




Il duecentesimo giorno di lavorazione, l’arazzo era finalmente terminato.

A Jerome toccava il compito più bello quello di tagliare i fili, e così anche quella volta, mentre i suoi figli tenevano ben teso l’ordito, aveva impugnato le forbici facendo cadere il filato d'inizio del lavoro, per terra.
Poi i ragazzi avevano srotolato l'arazzo dal subbio, dov'era avvolto, e steso sulle lastre del pavimento.


Era quello il momento più bello e Jerome lo ricorda come fosse ora; finivano tutti insieme a controllare le sfumature dei colori e la precisione dei tratteggi che, se non erano ben demarcati, finivano con il confondersi con le mezze tinte delle ombreggiature. Il "millefleurs" era perfetto e bellissimo:
in primo piano una donna bruna se ne stava seduta su un tronco, sulla riva di un fiume gonfio d’acqua; l’ombrellino aperto, sotto un cielo plumbeo, abbandonato in un angolo. In lontananza, il panorama di una splendida città fortificata e tutto intorno le piante che crescono sulle rive della Loira.

La prima volta che i "lissieur" vedono il lavoro finito, dopo essersi spaccati la schiena sui telai, con il naso e la testa piena dell’odore acre di piscio di capra, che serve a fissare i colori, le mani spaccate dai filati più forti, è il giusto premio per il loro lavoro o la delusione più grande.

Quel giorno se ne stavano tutti insieme in contemplazione da non accorgersi che Madame Carpenter , che per prima voleva vedere tutti I lavori di Jerome, non era arrivata, e nemmeno il pittore Lassalle.
 Quella assenza donò loro come un brivido di soddisfazione, si potevano godere tanta bellezza esclusiva.
Ciò che accadde, nei momenti successivi, s’iscrisse per sempre nella memoria dell’uomo.

Fu un accrescersi di rumori, dapprima alcune parole urlate dalla strada, poi il frastuono dei pugni che sbattevano sulle porte del tessitore, infine, quando l’uomo e i suoi figli uscirono all'aperto, un forte crepitio di passi, che correvano sui ciottoli, verso la riva.
L’uomo e i suoi figli maschi seguirono il gruppo, correndo anch'essi. verso la riva.

 La chiatta dei gitani era trattenuta, immobile, in un mulinello d’acqua che ora la tirava a fondo per spingerla subito dopo a galla. I flutti spingevano verso riva tutte le suppellettili, che erano a bordo, e le loro strane mercanzie, e la gente, a riva, si affrettava a raccogliere tutti quegli oggetti e a metterli a riparo.
Gli uomini, inermi, fissavano il fiume e la barca sperando di poter intervenire e mettere in salvo quella povera gente, eppure il vortice si era ripetuto diverse volte, davanti ai loro occhi.
Molte ore dopo, quando l’ombra lunga della sera stava calando, il furore delle acque si calmò, ma ormai negli occhi della gente non v’era più speranza per quelle vite, era tutto un muovere di bocche silenziose intente a pregare per quelle povere anime.

Jerome fu l’ultimo a lasciare il fiume, aspettò e aspettò che il volere di Dio si compisse e rimase in ascolto sperando di sentire un grido, un lamento.
Quando ormai anch'egli s’era rassegnato, s’alzò un canto nel buio. Una voce di donna cantava.

L’uomo chiamò sperando che ella gli desse delle indicazioni per farsi raggiungere.- Chi siete? -
- Chi siete?-
- Ditemi vi prego dove vi trovate, vi porterò in salvo..-
Non ebbe nessuna risposta. Allora cominciò a correre lungo l’argine, avvicinandosi più che poteva all'acqua, cercando di scorgere, una sagoma, un’ombra, qualcosa..
Fu il silenzio.
L’uomo, che non si voleva dar pace, si gettò in acqua muovendo le braccia da tutte le parti, per cercare di afferrare quel corpo.
Quando quasi aveva perso le forze, gli sembrò di sfiorare qualcosa con le dita, allora cercò una presa, più salda, e lo trasportò a galla.
I figli, che erano corsi a cercarlo, gli andarono in aiuto e portarono il corpo a riva.

Jerome ascoltò il petto della donna, che era ancora viva, e disse ai figli di portarla a casa.L’adagiarono sulla tavola della cucina e cominciarono a frizionarle le gambe con l’olio di lino, per scaldarla. Quando finalmente gli sembrò che si stesse riprendendo, l’uomo provò a chiamarla.
- Siete al sicuro, siete salva.. -.
L’addome, della donna, si mosse all'improvviso e cominciò a buttar fuori acqua mista a fango, e, quando il suo ventre sembrava essersi prosciugato, ricominciava daccapo a pisciar fuori melma.
Le figlie di Jerome, correvano a svuotare fuori il secchio che ella ricominciava.
L’uomo non voleva arrendersi, ma il volto bellissimo della donna, piano, piano, si stava adombrando di morte.
Capì che presto se ne sarebbe andata.

La strinse a se aspettando che chiudesse gli occhi per l’eternità e lei ricominciò il suo canto incomprensibile.


""De esplendor se doran los aires y el cristal del Ebro se argenta, que a media noche un sol su curso
empieza. Las luces se avecinan, se ahuyentan las tinieblas, el prado ostenta flores, el Cielo esconde estrellas."".

Erano morti tutti, si seppe il giorno dopo, li trovarono sulla sponda opposta di Bourgneuf: un uomo anziano, con la bocca piena di pesci, una vecchia, forse sua moglie, e una bambina molto piccola. Qualcuno disse che non erano forestieri e che , qualche volta, si erano fermati a vendere gli aghi per i telai. Il vecchio, lo chiamavano Negro, e la ragazza era la popolare Pilar, la voce più bella dell’Andalusìa.

Seppellirono quella famiglia di girovaghi sulle sponde del fiume, così che, la giovane, potesse cantare le sue canzoni ai viandanti.
Non volle sentir ragione Jerome, e non consegnò il lavoro ordinato, a madame Carpenter e al suo pittore, se lo appese davanti al letto in ricordo della Gitana.
 Infine, consegnò ai figli tutto quello che aveva e disse loro che ormai era vecchio, che andassero per il mondo.

Quella notte di Primavera mentre gettava, inutilmente, le pietre, la sabbia e i rami nel fiume, neanche si accorse che era giunto il suo giorno, così ammaliato dal canto.

-billa-

venerdì 5 ottobre 2012

Scazzo d'Agosto

Sto scrivendo e allo stesso tempo ascolto musica dalle mie cuffiette: un buon sistema per isolarmi divertendomi.

Non faccio caso a chi ho attorno. Ciò che ho preparato appena arrivato, quando in spiaggia non c'era che un un innocuo omino intento a leggersi un tomo da mezzochilo, eviterà che durante la scrittura capitino distrazioni: davanti a me il lettino aperto sotto il sole, come lo sono del resto due cislonghe ai miei fianchi, e in mezzo, sotto l'ombrellone, una sedia con me sopra: un antidoto che permetterà a me di star bello fresco, evitare ai poveri Vu cumprà di venirmi eccessivamente vicino per farmi improbabili offerte e ai bagnanti di occupare parte di un territorio già delimitato.

Mentre scrivo le vedo arrivare queste pattuglie domenicali con lo scopo esclusivo di rendere appagante un giorno di festa.
A tutto si può pensare, vedendo il passo sonnolento e claudicante di questi zombie della domenica, che il sole che si sono venuti a prendere possa entro poco stravolgere le loro mattutiniere intenzioni.
E non basta cospargersi tutte le parti del corpo con unguenti protettivi a esorcizzare gli effetti isterici collaterali che esso può provocare nelle loro menti. Capiterà. Basta aspettare. E io sono pronto con un editor aperto sul mio iPad a registrare il sicuro evento.
Capita anche nelle redazioni dei giornali, il giorno prima di una manifestazione sportiva, di lanciarsi in azzardate previsioni. E anche io nel mio piccolo ci voglio provare: a chi toccheranno isteriche incandescenze questa volta? A quei bambini che hanno sfiorato tre o quattro volte le mie cislonghe inseguendosi l'uno con l'altro? A questa signora di mezza età alla mia destra che mal sopporta il mio lettino aperto sotto il sole, d'intralcio alle sue manovre per accudire una vecchietta, probabilmente sua madre, bofonchiante di rimproveri nei suoi confronti? O forse a chi ho davanti? Moro abbronzato nero catrame, lui; rossa di capelli e dalla pelle bianco cadavere, lei; oppure al loro pargolo, capelli rossi come mamy, e non ancora da età da scuola? Sarà forse proprio Pel di carota a svalvolare per primo, mentre ora è tutto tranquillo a giocare con paletta e secchiello, ma chissà se lo sarà ancora quando il sole graverà perpendicolare sulla sua teste? O forse a qualcuno dell'insospettabile coppia di russi arrivati subito dopo di me in spiaggia, belli impomatati con crema solare protezione centocinquanta - questi coglioni mi sa che non se la danno ai piedi il , cazzo, sembra che tutti ed due si siano infilate pantofole rosse -, e con un paio di gemelli al seguito? Chi perderà le staffe in modo tale da rendere indimenticabile la loro domenica e a me dare il pretesto di scrivere qualcosa?
Penso sempre che in questi casi basta attendere. Non è questione di crudeltà, intendiamoci. Sta nell'animo umano e soprattutto nel segno dei tempi. In una società capitalista come la nostra che trovato il sistema di soddisfare i bisogni primari non si accontenta solo di loro, ma desidera andare oltre anche se questo pregiudica il fabbisogno di chi ha accanto con mezzi più o meno leciti, è chiaro che dimostri la sua voracità anche in una giornata di festa al mare. Sì, basta attendere.

E mentre mi dilungo su premesse filosofiche, lasciando scorrere i brani degli Acoustic Alchemy sul mio iPod in un susseguirsi di melodie spagnoleggianti e non solo, non faccio caso al braccio destro allungato del babbo nero catrame verso la coppia dei russi di cui non mi ero accorto essersi alzati dai loro lettini.
Col disappunto di essermi fatto sfuggire qualcosa d'importante, un po' come un pescatore distratto strattona la sua canna già conscio di avere perso l'attimo fuggente, sfilo dall'orecchio un auricolare quel tanto che basta per afferrare un "ti uccidooo" proveniente dal babbo di Pel di carota sotto i sei anni.
"Cazzo!" Mi dico. "A tanto siamo arrivati. E tutto in pochi attimi". Era successo qualcosa che mi ero perso; la trota che aveva mangiato il lombrico senza farsi accorgere dal pescatore.

La disputa era già iniziata e io stavo cercando, almeno di capirci qualcosa.
"Hai capito o no , brutto pancione coglione, che tuo figlio voleva strozzare il mio?"
A chi si riferisce il moro incazzato lo percepisco dalla proiezione del suo braccione teso; chiaramente invece capisco cosa pensa di lui, lo sta ribattezzando, in preda a un sadico ghigno, con una sequela di aggettivi fuori fascia area protetta; escono a ripetizione dalla sua bocca, e così tanti da farmeli risultare dopo un po'quasi insignificanti, come penso lo siano anche per tutti i bagnanti del nostro stabilimento balneare, di quelli adiacenti, ma anche di voi se li sentireste, fidatevi. Da quanto urla mi sa che mezzo Tirreno è venuto già a sapere come il moro nero catrame vede il russo, non così grassone come sta dicendo lui, ma di certo in sovrappeso.

A questo punto, capite bene, sono curioso di scoprire chi sono stati i contendenti, fratelli di giochi e contese. Abele mi sembra di averlo individuato: facile, perché il padre, sempre incazzato, non accenna a togliergli dalla spalla la sua manona libera rimastagli; l'altro, terminale di un braccio ancora bello offensivo, non accenna a sbloccarsi da una ormai stucchevole attività di additamento.

E il Caino dov'è? Gli indiziati sono i gemelli russi. Uno di loro è innocente e l'altro è colpevole. Cazzo, la cosa si fa complicata! Non è che visto la loro esasperata assomiglianza si possa fare di tutta l'erba un fascio!
Il nero incazzato, e mentre scrivo vi assicuro lo è ancora, non è che poi sbraitando e urlando mi aiuti poi così tanto a capire chi fra i gemelli ha compiuto il gesto; l'altro, al limite, può essere stato il complice, tipo reggergli un gomito per alleviargli la fatica durante lo stritolamento, o che so altro.

Quindi chi tra i due è il marmocchio dalle manie omicide?
Quello con la paletta che scava? - Oh cazzo, guarda che bel bucone che ha fatto -
Quello che infila la terra del bucone nei secchielli per far formelle con cui sta circondando una coppia di vecchietti accanto sotto l'ombrellone? Voglio poi capire quando decidono di tornarsene a casa, come fanno a passare senza calpestarne qualcuna.
Quello con la paletta o quello col secchiello?
Insomma, dubbi d'estate, che se qualcuno non si decide a lanciare qualche indizio, lasciano per l'aria il profumo del caso irrisolto, roba da "inchiesta sotto il sole" da vedersela apparire in qualche trasmissione attorno alla mezzanotte, in un palinsesto televisivo alla Carlo Lucarelli, tanto per capirsi.

"Io direi di farla finita" sento dire tutto a un tratto in mezzo alla fila di improperi.
"Carneade chi è costui?" Viene da dirmi mentre scrivo. Percepisco che la voce è baritonale, e forse familiare. Sollevando il dubbio per iscritto, non ho il tempo di cogliere ancora un altra volta l'attimo. Ergo, se non alzo il mio capoccione non saprò mai chi è chi si è intromesso nella "singolar tenzone".
Scorgo alle prese con uno sdraio con l'intento di piegarlo e metterlo a posto sotto un ombrellone poco distante. "Cribbio" mi dico, "è proprio il posto di quell'anziano signore col gusto di legger tomi da mezzo chilo, chiaramente datosela a gambe per non aver tollerato il diverbio domenicale in corso", dico scorgo, il sicuro emittente dell'invito baritonale.
Si è rialzato. E di spalle è ancora più mostruoso: sarà forse quella scritta bianca "SALVATAGGIO" a stagliarsi sul caniotterone rosso a darle una caratterizzazione mistica. Mi ricorda tanto Simone, questo bagnino. Simone, si dai, quel santo che col bambino sulla collottola sprofonda e affoga nelle acque durante la traversata di un fiume dalla corrente mortale, non senza prima portare in salvo la creatura soccorsa.
"E tu che vuoi?" gli domanda l'incazzato abbassando il braccio, be' almeno in questo il bagnino c'è riuscito. "Hai visto che quel bimbo ..."
"E dillo chi" mi e gli domando sottovoce, "lo scavatore o il raccoglitore?"
"Ha messo le mani attorno al collo a PierPaolo. Lì c'è la carotide. È pericoloso, cazzo. E lui stingeva! E suoi genitori, del cazzo, quei pidocchiosi russi del cazzo, lo lasciavano fare, loro ....."
"Si dia una calmata, perché se no a morire è lei"
"Ma come ti permetti. Tu hai visto tutto. Da lassù che guardavi. E senza far niente, tu ..."
"Son cose che i ragazzi devono sbrigarsi da loro" gli dice il bagnino con una flemma da lord inglese che cozza con la logorroica passione offensiva espressa dall'incazzato, questo mentre il bagnino chiude l'ombrellone del lettore mattutino.

E con gli inferociti di uno che ha da poco appreso che il mondo ce l'ha con lui. Il braccio comincia a roteare a trecento sessanta gradi, riparte "Tu, loro, voi ....." alla ricerca di un verbo per placare la coniugazione in cui si è incaponito.
Le sue meningi sono chiamate all'unanime sforzo: trovare un verbo, un aggettivo non ancora uscito nella sequela di ingiurie già sparate, sta provocando al suo testone un tremolio che col passare dei secondi è sempre più evidente; la sua invidiabile abbronzatura si sta trasformando in un rosso porpora tipico di chi al mare ci viene un giorno solo; il braccio teso, una volta rigido e risoluto, sta diventando insicuro e barcollante.

E mentre io, noi, tutti siamo in attesa di conoscere com'è diventato il mondo per lui, tanto che ogni attività balneare si è fermata per saperlo: i bambini non giocano più, i vecchietti non leggono più, i russi non ridono e io non scrivo più visto che tutto, dico proprio tutto, si è fermato .... Ebbene lui, raggiunto l'apogeo della disperazione, apre la bocca e sapete cosa fa? Alita. E lo fa per parecchi volte. E dopo una mezza dozzina di iper ventilati respiri gli occhi tornano essere quelli della tigre, il viso torna paonazzo, il braccio è bello teso come il dito indice degno suo prolungamento che ci addita proprio tutti.
"Tu" inizia a dire indicando il bagnino; "e voi" spostando il dito sui russi; "e loro" saltando ai gemelli, ma anche ai passanti e forse anche a me - vuoi vedere che gli sto sulle palle anche io-, "voi" ripete spostando il braccio e il dito a chi tocca tocca come se fosse una mitragliatrice "voi siete cattivi". Proprio così parlò Zarathustra.
E l'aria soddisfatta scaccia il ghigno; gli occhi si placano, il braccio e il dito si prendono pace e tornano ad aiutare l'altro in operazioni più pacifiche: ripiegare il suo telo; chiudere lo sdraio; abbassare l'ombrellone; riempire borse e borsettine, portarsi ai piedi le ciabatte, e come un vigile, invita la famiglia a raccattare tutto e avviarsi alla passerella.

Questa struggente capitolazione me lo fa apparire di colpo come Napoleone Buonaparte che, persa la battaglia decisiva, non gli resta che varcare la porta dell'esilio.
Rassegnato, col collo a penzoloni, si avvia dietro la sua truppa già partita davanti in fila indiana verso la passerella, dietro di loro un lento movimento delle gambe.
E io non posso fare altro che prepararmi a iniziare a scrivere l'epilogo e a far scorrere l'elenco dei nomi dei personaggi principali e secondari che si sono successi di questa fantastica domenica.

Ma come capita in un giallo di alta suspence, succede quello che non ti aspetti: il trambusto di sdraio contro sdraio,di ombrelloni divelti, lettini che si schiantano; tutto ciò a farmi capire che devo sospendere la scrittura dell'epilogo, rialzare la capoccia perché Napolenone è fuggito dall'isola d'Elba e quei rumori ne sono la dimostrazione.
Era tutta una messa in scena, cari miei lettori. L'avere lasciato andare avanti la famiglia era un pretesto, e la pensilina, il suo cavallo di Troia: percorrendola si sarebbe avvicinato nel campo nemico, nel territorio russo, e quindi più facile sferrare l'attacco.
Obiettivo? Restituire pan per focaccia, ossia, tradotto in soldoni: raggiungere il collo del padre del Caino russo: non mi dite come a fatto ad arrivarci ad afferrarlo lassù, magari a omicidio concluso lo chiederò di certo a qualcuno.

Non so come ce l'ha fatta a montargli sulla schiena e ad agganciarsi al collo del russo, con questo che cerca inutilmente di disarcionarlo. Sarà dura, su questo non c'è dubbio: il collo taurino del russo è tanta roba, e prima di fargli esalare l'ultimo respiro a Napoleone occorrerà impegnarsi, anche se ciò non sembra preoccuparlo più di tanto.
Nel campo di battaglia che è diventato il lato destro del Bagno Adele i personaggi principali e secondari risfilano dai titoli di coda per tornare a essere vividi nella scena, tutti dietro Napoleone e il suo destriero che corre, corre in su e giù per il bagno in cerca di aria vitale. Chi l'avrà vinta? Sará Austeritz o Waterlo?

E mentre vedo passarmi davanti per la terza volta il destriero con sopra Napoleone, con dietro la moglie e i bambini del cavallo, la moglie e il bambino del cavaliere, i bagnanti del lato destro del bagno Adele, tutti urlanti e preoccupati, in una scena già vista in un filmone dei fratelli Marx, mi viene il dubbio se non devo fare anch'io qualcosa, quel qualcosa che forse mi aspetterei dal bagnino.
E quel tangano con la grossa scritta SALVATAGGIO sulla schiena dalla voce baritonale, che fino a quel momento non aveva mosso un piede o un dito, contemplando ciò che stava succedendo, appoggiato su un manico di un ombrellone sapete cosa fa? Al nuovo passaggio davanti a lui solleva il bastone e "stock" te lo schianta sul cranio di Napoleone disarcionandolo.
Fine della corsa.
Tutti fermi,
tutti zitti,
fine di tutto.
Il silenzio calato nel bagno si infrange solo dai deboli lamenti di Napoleone disteso immobile sul campo di battaglia. Sollevato da terra dal bagnino neanche fosse un fuscello, il bagnino se lo porta sulle spalle e, afferrato per mani e piedi, manco fosse una capretta, inizia una camminata verso l'infermeria del bagno Adele.

Mutismo e rassegnazione e ciò che avvolge il bagno, tranne il sottoscritto che in preda a risate, rimessosi le cuffiette dell'iPod, mette un punto su questo fantastico scazzo d'Agosto.


Racconti - Gomitolo

sabato 15 settembre 2012

Become Human


          Negli ultimi anni, al variare di mode aberranti che per fortuna, almeno loro, se ne vanno col passare delle stagioni, ne ho potuta notare una che mi ha lasciato molto perplessa. Ho lasciato passare gli stivaletti-pantofole dalla forma goffa ma sicuramente lodevoli per il caldo, i pantaloni della tuta dai colori sgargianti sfoggiati in ogni momento del giorno e della notte, i piumini traslucidi che trasformerebbero anche la più bella delle modelle nell’omino Michelin, ma è più in su, in prossimità del collo che, magari affiancata dai suddetti capi d’abbigliamento tanto antiestetici quanto necessari per essere conformi, ho visto comparire qualcosa di insolito fra i giovani modaioli: La kefiah. Dalle classiche bianche e nere o bianche e rosse si è arrivati alle versioni colorate, a fiori, a pied de poule, a teschietti, firmate e da bancarella.
          Ingenuamente, all’inizio pensavo che ogni possessore fosse un convinto filo palestinese che volesse dimostrare la propria solidarietà a un popolo martoriato da anni, ma mi ci è voluto poco per confutare empiricamente la mia prima impressione.
          Mi ricordo che a dodici anni, solo sei anni fa, un’amica mi regalò la mia prima kefiah, che stavo cercando con lo stesso ardore con cui quest’anno ho cercato l’eskimo, una corazza di utopie usate per difendermi dal qualunquismo e l’indifferentismo della mia generazione e dalle troppe eredità putrescenti delle generazioni passate. Mia mamma mi aveva spiegato per sommi capi cosa rappresentasse quella sciarpa che vedevo al collo solo di persone che, nel mio piccolo, stimavo molto ed effettivamente si trattò di una spiegazione efficace o, almeno, sufficiente a farmi schierare subito, per quella sorta di imperativo morale che, grazie all’empatia, mi ha sempre fatto scegliere l’oppresso e mai l’oppressore, da quella parte che ognuno dovrebbe difendere, senza pensarci troppo. Insomma, cosa accade in Palestina? Perché alcune persone indossano, consapevolmente, quella kefiah che è ormai stata declassata a ordinario foulard? Penso che il modo più efficace per spiegarlo sia fare ordine fra le tappe che hanno portato a Gaza, a Piombo fuso.
          Con la sconfitta dell’Impero Ottomano nel 1918, si aprirono le trattative fra Francia e Inghilterra. Nel 1920, la Siria e il Libano diventarono un mandato francese e la Palestina e l’Iraq un mandato dell’Inghilterra. Presero il nome di “mandati” quelli che non si potevano più chiamare domini occidentali ma che di fatto erano, soltanto formalmente, amministrazioni europee con una teorica funzione di favorire l’indipendenza dei popoli del Medio oriente. Come nella migliore delle tradizioni imperialiste, i confini non seguivano quelli naturali e fisici, ma erano confini politici, meramente tattici. Questo, in un certo senso, prolungò la tradizione dell’Impero Ottomano che, vista la vastità dei propri territori, non favoriva certo sentimenti nazionali, tipicamente occidentali, dovuti a una cultura comune, impossibile da avere in un impero così immenso, ma una forte identità religiosa.
          Facendo un passo indietro, nel 1917, Londra si diceva favorevole alla creazione di una sede nazionale ebraica in Palestina, con un lieve accenno sulla garanzia dei diritti umani alle comunità non ebraiche già presenti. Questo riaccendeva una questione mai sopita dal lontano 1896, anno in cui Herzl scrisse “Lo stato ebraico”, definendolo una “necessità storica” per mettere fine all’emarginazione e discriminazione degli ebrei a cui veniva ostacolata l’integrazione “perfino nei paesi civilizzati”. Per ovviare questo problema, a partire dai primi del Novecento, si iniziarono ad acquistare territori in Palestina, la terra promessa, con il supporto economico del Fondo Nazionale Ebraico.
          Dopo la Seconda guerra mondiale (“la storia insegna ma non ha alunni”, direbbe Vik), l’ideologia sionista si rafforzò enormemente e alla Germania venne dato il diritto di veto sulla questione palestinese ché, visti i precedenti storici, sarebbe stato facile tacciare di antisemitismo. Questo “privilegio” si estese anche agli Stati Uniti. Proprio il presidente statunitense Truman fu, infatti, il primo sostenitore di uno stato ebraico mentre l’Inghilterra, sfibrata dalla guerra, rimase sulle posizioni prese nel 1939, in cui pubblicò il “Libro bianco”, un rapporto sulla situazione in Palestina in cui, tra l’altro, si fissava il tetto massimo per l’immigrazione degli ebrei. Successivamente, nel 1943, l’Inghilterra si affidò completamente alle decisioni dell’ONU che, nel 1947, propose un compromesso:
• Gerusalemme sotto controllo internazionale
• Stato ebraico nel 55% del territorio palestinese
• Stato arabo Nel 1948, venne proclamato lo Stato d’Israele con la netta opposizione della volontà palestinese, che si rendeva conto che accettare avrebbe voluto dire genuflettersi di fronte a un diktat europeo, lontano. Tra il 1948 e il 1949, Al-Nakba, la prima guerra arabo-israeliana vista come guerra d’indipendenza, in uno stato non loro, dagli israeliani e come catastrofe dai palestinesi che, per sfuggire a vere e proprie operazioni di pulizia etnica, si trasformarono in circa 700000 profughi. L’immediata conseguenza fu un ampliamento dello stato ebraico, al quale si aggiunsero colonie a nord e a sud, escludendo soltanto Gaza e la Cisgiordania (West Bank). Come risposta delle Nazioni Unite, venne istituita la UNRWA, agenzia che assistette 4,6 milioni di rifugiati, molti ospitati nei campi profughi, sovraffollati (80.000 persone in 1 km2 ). Tuttavia riuscì a costruire numerose scuole e ambulatori.
          Nel 1967, la Guerra dei sei giorni inflisse un’altra sconfitta agli Arabi palestinesi che persero anche Gaza e la Cisgiordania. Tuttavia, in questo stesso anno, finalmente in Palestina sembrarono nascere movimenti portatori di un concreto cambiamento. Solo un anno dopo, l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) redasse il suo atto costituente in cui si definiva lo scopo principale, rifondare lo stato Palestinese, laico e democratico, si rifiutava la legittimità del sionismo e di considerare gli ebrei come una comunità nazionale essendo una comunità religiosa. Nacque anche Al-Fatah, in cui si fece strada Yasser Arafat. Nel 1970, durante il Settembre nero si scontrarono l’esercito giordano del re Hussein e l’Olp, che spostò la propria sede in Libano, che Israele invase prontamente costringendoli alla fuga nel 1982.
          Nel 1987 la prima intifada scatenata dal colono israeliano che, a bordo di un camion, investì due taxi collettivi nel campo profughi di Jabaliya. L’intifada (sommossa) è una rivolta non violenta in cui i palestinesi lanciarono simbolicamente dei sassi contro gli occupanti che risposero con una sistematica violazione dei diritti umani per ristabilire l’ordine: chiusero le università, deportarono i palestinesi, aumentarono la pressione fiscale e promossero ulteriori insediamenti israeliani nei territori occupati.
          Rabin, presidente Israeliano, caldeggiato dall’opinione pubblica, si rese conto dell’effettiva disparità raggiungendo lo storico accordo di Washington con Arafat che, dal canto suo, accettò l’esistenza dello Stato di Israele, sperando nel principio “pace in cambio di terra”. Si ottenne così il ritiro dell’esercito israeliano da Gaza e dalla Cisgiordania. Come un fulmine a ciel sereno o, meglio, ancora parzialmente nuvoloso, Rabin venne assassinato da un militante della Eretz Israel, partito che lottava per la completa espulsione degli Arabi dalla Palestina. Il successore di Rabin, Sharon, utilizzò subito il pugno di ferro, o stupido cinismo che dir si voglia, e iniziò il suo mandato con una serie di provocazioni, culminate con la passeggiata sulla spianata delle moschee a Gerusalemme che causò la seconda intifada. Hamas rispose con attentati suicidi mentre a Gaza si svolgevano scioperi e manifestazioni non violente. Nel 2001, il muro di Sharon, restrinse ulteriormente il territorio di Gaza.
          Ma Gaza cos’è? Un pezzo di terra che è anche uno dei territori più densamente popolati del mondo (1,5 milioni di abitanti in 378 km2)
“Prendete un pezzo di terra, lungo 40 chilometri e largo all’incirca 5 chilometri. Chiamatelo Gaza. Poi riempitelo con un milione e quattrocentomila abitanti. Dopo di che circondatelo con il mare ad ovest, l’Egitto di Mubarak a sud, Israele a nord e ad est e chiamatela la Terra dei Terroristi. Poi dichiaratele guerra e invadetela con 232 carri armati, 687 blindati, 43 postazioni di lancio per jet da combattimento, 105 elicotteri armati, 221 unità di artiglieria terrestre, 346 mortai, 3 satelliti spia, 64 informatori, 12 spie infiltrate e 8000 truppe. E ora chiamate tutto questo ‘Israele che si difende’. Adesso fermatevi per un momento e dichiarate che “eviterete di colpire la popolazione civile” e definitevi l’unica Democrazia in azione” [“Restiamo umani”,Vittorio Arrigoni] Ma la storia va avanti con i suoi massacri perpetui e ignorati. Nel 2005 Israele promosse il Piano di disimpegno,ritirando formalmente le truppe da Gaza. Rievoca l’apartheid sudafricano, si mirava a escludere, emarginare e non certo a liberare le zone occupate. Israele si lava così le mani da ogni responsabilità e anche i suoi muti spettatori si lavano la coscienza tirando un respiro di sollievo. Ma a Gaza la situazione è diversa: lo spazio marittimo e aereo sono sotto controllo israeliano, così come le risorse idriche. Inoltre, i valichi di passaggio con l’esterno sono solo tre e rigorosamente controllati da Israele
• Erez, collegamento con Israele
• Karni, transito per i camion
• Rafah, collegamento con l’Egitto La colonizzazione, insomma, continua, mascherandosi da leggi assurde e grazie al tacito consenso del resto del mondo. Innanzitutto, la legge del ritorno, che facilita l’incremento della popolazione d’Israele concedendo la cittadinanza a chiunque si dimostri ebreo per discendenza materna o per avere compiuto i riti di passaggio. Inoltre, le abitazioni abusive dei coloni israeliani sono legittimate dal governo israeliano che, addirittura, incoraggia questo tipo di investimenti con agevolazioni fiscali. Man mano che queste abitazioni riescono a sorgere all’interno dei confini di Gaza, il muro si restringe e con esso il territorio palestinese.
          Nel 2008 ha inizio Piombo fuso, la testimonianza di due medici operativi in palestina vale più di ogni spiegazione.
“Prendi dei gattini, dei teneri micetti e mettili dentro una scatola […] Sigilla la scatola, quindi con tutto il tuo peso e la tua forza saltaci sopra sino a quando senti scricchiolare gli ossicini, e l’ultimo miagolio soffocato […] Cerca ora di immaginare cosa accadrebbe subito dopo la diffusione di una scena del genere, la reazione giustamente sdegnata dell’opinione pubblica mondiale, le denunce delle organizzazioni animaliste[…] Israele ha rinchiuso centinaia di civili in una scuola come in una scatola, decine di bambini, e poi la schiacciata con tutto il peso delle sue bombe. E quale sono state le reazioni nel mondo? Quasi nulla. Tanto valeva nascere animali, piuttosto che palestinesi, saremmo stati più tutelati.”A questo punto il dottore si china verso una scatola, e me la scoperchia dinnanzi. Dentro ci sono contenuti gli arti mutilati, braccia e gambe, dal ginocchio in giù o interi femori, amputati ai feriti provenienti dalla scuola delle Nazioni Unite Al Fakhura di Jabalia, più di cinquanta finora le vittime. Fingo una telefonata urgente, mi congedo da Jamal, in realtà mi dirigo verso i servizi igienici, mi piego in due e vomito.” [Jamal, chirurgo dell’ospedale Al Shifa, riportato da Vittorio Arrigoni l’8 gennaio 2011]
“Il fosforo bianco è un combustibile solido giallo trasparente, di aspetto cereo, che produce fumo, e che viene utilizzato principalmente in dispositivi militari e industriali. In presenza di ossigeno, prende fuoco spontaneamente con una fiamma gialla e producendo un fumo denso; si spegne solo quando viene privato di ossigeno o se si è consumato del tutto. A contatto con pelle esposta , il fosforo bianco produce bruciature chimiche dolorose; esse si presentano di solito come lesioni giallastre, necrotiche, di notevole consistenza, dovute ad entrambi i fattori, quello chimico e quello termico. Poiché il fosforo bianco presenta una grande solubilità nei grassi, le ferite si estendono spesso in profondità all’interno dei tessuti sottocutanei con il risultato di una guarigione della ferita protratta nel tempo. Il fosforo bianco può essere anche assorbito in modo sistemico portando a sindromi multiple di disfunzioni degli organi a causa dei suoi effetti sugli eritrociti, sui reni, sul fegato e sul cuore. La gestione di un primo soccorso su ustioni da fosforo bianco include la rimozione degli abiti dei pazienti e l’applicazione di bende saline o imbevute d’acqua. In base agli studi su animali o a relazioni sul caso, nel reparto di pronto soccorso si raccomanda che vengano fatte continue irrorazioni delle ustioni con acqua per ridurre al minimo le complicazioni delle bruciature e che dovrebbero essere rimosse le cariche necrotiche dovute alle particelle di fosforo bianco individuabili con grande facilità. […]Casi estremi possono risultare fatali. Non si può fornire una valutazione del numero di casi di questo tipo nel nostro reparto ustionati, dato che si è in una situazione di guerra nella quale non viene fatta una formale registrazione di quanto succede; in queste ustioni ci si era imbattuti raramente nella pratica e la letteratura che ne descrive dei casi è limitata. Secondo la Convenzione delle Nazioni Unite relativa a Determinate Armi Convenzionali è vietato considerare i civili quali obiettivo di un attacco con armi incendiarie.” [Di Loai Nabil Al Barqouni, Sobhi I. Skaik, Nafiz R. Abu Shaban, Nabil Barqouni]
E anche quella di Vitttorio Arrigoni, che ci dà la dimensione delle cose:
“Recandomi verso l'ospedale di Al Quds dove sarò di servizio sulle ambulanze tutta la notte, correndo su uno dei pochi taxi temerari che zigzagando ancora sfidano il tiro a segno delle bombe, ho visto fermi ad una angola di una strada un gruppo di ragazzini sporchi, coi vestiti rattoppati, tali e quali i nostri sciuscià del dopoguerra italiano, che con delle fionde lanciavano pietre verso il cielo, in direzione di un nemico lontanissimo e inavvicinabile che si fa gioco delle loro vite. La metafora impazzita che fotografa l'assurdità di questa di tempi e di questi luoghi.”
          La verità non sta da una parte sola? Può darsi, ma sicuramente è un imperativo morale prendere le difese di chi lotta con i razzi artigianali che spesso (per fortuna) non hanno nessun potere omicida e non con chi forma, prima ancora di formare delle persone, dei soldati (Il servizio di leva in Israele è infatti obbligatorio per uomini e donne dai 18 anni e dovrà essere ripetuto per un periodo di alcune settimane ogni anno fino ai 40 anni).





Insomma, Vik, tu ci dicevi di “Restare umani”, ma secondo me prima dovremmo diventarlo, tutti, come lo sei stato tu.



Ruggiti-Letizia_e_rivoluzione

mercoledì 25 luglio 2012

The Number Of The Beast- Iron Maiden


Giovedì 19 luglio, nella mia via, si è svolta una festa. Essa era nel complesso molto carina: i tavoli per mangiare, le belle cameriere e il gelataio. Ma in questa festicciola, l’unica cosa brutta era la musica che il Dj passava sul suo giradischi. La Macarena, pezzi anni 40 e quella spazzatura della musica tunz tunz odierna.
Quel Fottuto Dj voleva proprio rovinarmi la serata con le sue “perle” di musica. Non potevo stare ben tre ore ad ascoltare quelle orribili mer… (dato che questo sito è letto da parecchie persone, la mia famiglia non approva questo linguaggio barbaro).
Ironia della sorte: mi trovo davanti il Cd della mia vita, quello che mi ha fatto sballare più di ogni altro. Sto parlando di The Number Of The Beast dei fantastici Iron Maiden! Il CD è un mix di rock e metal che se lo ascolti per la prima volta pensi che sia meglio del canto delle sirene che Ulisse ascoltò nell‘Odissea.
Il CD parte subito con Invaders. Il testo parla di invasori che vogliono attaccare la terra. Il pezzo è molto rock ed è perfetto come inizio album. 
La prima traccia però, serve a preparare l’ascoltatore alla canzone seguente, ovvero Children Of The Damned. Un lento che ti fa venire voglia di piangere da quanto è bello. Il testo parla di un bambino condannato ad una profezia (non ho capito molto bene quale profezia, ma non è questo il punto :D ).
La traccia seguente è The Prisonier, che come la traccia dopo (22 Acacia Avenue) non fa sognare l’ascoltatore come le prime.
Ma poi arriva il punto migliore dell’album, e qui vi devo raccontare una storia: allora… immaginatevi  di essere davanti ad un essere onnipotente che vi sta per uccidere. Avete paura. Sgomento.Terrore. Improvvisamente vedete una luce arrivare. La lava dei vulcani vicini vi impedisce di scorgere per bene la figura .Ma poi vi accorgete che è un uomo. Lo sconosciuto inizia a cantare un ritornello spettacolare  che riesce a scacciare via il mostro. Proprio così, lo scaccia. Allora il vostro salvatore vi racconta la storia della creatura ch vi voleva mangiare. Qui fate partire la traccia e… BOOOM! Nel giro di pochi secondi sentite l’adrenalina salirvi su per la schiena e, durante il ritornello, la sprigionate! Ed ecco il mitico Bruce Dickinson che urla: “666 THE NUMBER OF THE BEAST!” e lì non c’è DJ che tenga, non c’è Macarena, non c’è Beatles e nemmeno tunz tunz, ma c’è Bruce che vi carica con The Number of The Beast!
La traccia successiva è una delle più belle canzoni che la band abbia mai scritto. Parte con un tempo di batteria molto singolare. Poi arriva un riff di chitarra che spacca di brutto. E poi c’è il ritornello. Ahhhh il ritornello: un mix di gioia, adrenalina e piacere allo stato P-U-R-O!! La canzone si chiama Run To The Hills, ed è una bomba!!
Le tracce dopo non sono un granché: Gangland è un tentativo mal riuscito di un pezzo rock anni 70 e Total Eclipse…. Non so a cosa paragonarlo dalla tanta  schifezza.
Ma poi c’è il Rush finale: Hallowed By The Name. La canzone parte con un arpeggio di chitarra stupendamente fantasmagorico. E poi non vi rovino la sorpresa, sennò durante l’ascolto saprete già tutto ;)

Siamo giunti al capolinea del CD. Ricordate che non c’è nessun FOTTUTISSIMO (cazzo l’ho detto…) DJ che tenga alla magia del metal e degli Iron Maiden. Nessuna Tunzata che regga la magia del rock n’roll! C’è solo un cazzo di genere musicale che vi riempirà l’anima di felicità fino alla morte…

martedì 12 giugno 2012

Lager Italiani

           Cercherò di razionalizzare, per quanto possa essere possibile, il mio sconvolgimento dopo avere letto “Lager italiani” di Marco Rovelli. Un pugno in faccia, non ci sono altre definizioni.
           “Tutto per un documento” è il filo conduttore di ogni drammatica testimonianza che compone questo libro. Nella società capitalista siamo ormai abituati a subordinare l’essere vivente a un pezzo di carta che di volta in volta può essere una banconota o, come in questo caso, un documento come il permesso di soggiorno.
          Fino a quando ci insegneranno il rispetto delle regole prima del rispetto per il prossimo? È proprio questo il punto, non solo la burocrazia sottomette la solidarietà e l’empatia che dovrebbero essere caratteristiche fondamentali per una società equa e basata sull’uguaglianza, ma l’apolide, l’immigrato, lo straniero non è neanche considerato un individuo. È nell’ombra, invisibile e, soprattutto, muto, come ogni schiavo che si rispetti.
          Niente proprietà privata, niente documenti, niente cittadinanze e lo Stato, ormai perso nei suoi cavilli formalisti, si chiede se questo è un uomo. Chiude gli occhi di fronte a chi ha bisogno, a chi ha avuto il coraggio di abbandonare tutto rischiando di essere incarcerato nel proprio paese, di non rivedere più i propri familiari, di affogare nel Mare Nostrum, la fossa comune dei nuovi schiavi. Lo stesso Stato che inneggia alla sicurezza additando il degrado dei campi Rom e delle piazze affollate da persone di un colore diverso dal nostro, non esita a compiere abusi di ogni tipo, nascondendosi dietro a società di tutto rispetto come la Croce Rossa e, addirittura, dietro alle Cooperative.
          Quanta gente saprebbe rispondere alla domanda “che cos’è un CPT o un CIE?” ? Purtroppo o per fortuna, credo siano in pochi a conoscere questo scempio e spero che questo deleterio silenzio sia dovuto all’ignoranza circa questo argomento. A questo proposito bisogna aggiungere che questi luoghi, per i quali l’appellativo “Lager” usato nel titolo non è certo un’iperbole, sono assolutamente off-limits e che elemento eccezionale di questo libro è stato proprio quello di fornire testimonianze altrimenti destinate all’oblio.
          Ci indigniamo di fronte alle violazioni dei diritti umani in paesi lontani dal nostro, auto convincendoci che quello che succede a loro è sintomo di “inciviltà”, ma non sappiamo cosa succede nel nostro bel paese, evoluto e progressista. Bari, Bologna, Crotone, Caltanissetta, Gradisca, Lamezia Terme, Lampedusa, Milano, Modena, Ragusa, Roma, Torino, Trapani a cui si aggiungono i CPT adesso chiusi di San Foca (il Regina Pacis, forse il più tragicamente famoso) e quello di Agrigento sono questi i luoghi in cui ogni giorno vengono violati i diritti umani in nome di una legge, che di umano ha ben poco.
          Ma cosa sono, quindi, i CPT? Introdotti dalla legge Turco-Napolitano, secondo la quale ogni straniero sottoposto a “provvedimenti di espulsione e/o respingimento con accompagnamento coattivo alla frontiera non immediatamente eseguibile” deve essere trattenuto dalle forze di polizia in uno di questi centri (nel corso del libro si potrà facilmente intuire la noncuranza verso i richiedenti asilo e quanto sia facile essere vittime di un provvedimento di espulsione, che spesso avviene per un equivoco e senza un reale pretesto) per sessanta giorni che, teoricamente, dovrebbero essere 30 più altri 30 di proroga eventuale. Inutile sottolineare che l’assistenza legale, per quanto prevista, è spesso assente o totalmente simbolica.
          Cos’ha portato alla creazione di questi campi? Scorrendo le principali leggi in materia di immigrazione possiamo vedere che c’è stata una graduale disumanizzazione dell’immigrato. La legge 943 del 1986, in cui si tentava di disciplinare il fenomeno migratorio prevedendo il ricongiungimento famigliare e l’equiparazione giuridica fra lavoratori italiani e lavoratori stranieri, rimandava a vaghi principi di pubblica sicurezza l’eventuale espulsione del migrante. Successivamente, nel 1990, la legge Martelli prevedeva chiaramente l’espulsione, effettuata a discrezione della prefettura per irregolarità e condanne penali. È doveroso ricordare un drammatico episodio del 1991, sicuramente un’immagine eloquente che ben traduce in fatti quello che con la lettura di una legge sembra rimanere astratto: sono vittime i profughi albanesi che arrivano in 21mila sulle coste di Bari, a suon di manganelli vengono internati nello stadio senza servizi igienici, acqua, innaffiati dagli idranti della polizia e con lo scarsissimo cibo calato dagli elicotteri. In tutto questo, la neonata Lega Nord da Milano strepita che devono essere ricacciati in mare. Arriviamo così al 1998, con la legge Turco-Napolitano vengono istituiti i CPT,la cui gestione è affidata al miglior offerente (poca spesa, poca resa) e alle forze di polizia. Nel luglio 2002, con la legge Bossi-Fini si tocca il fondo: nessuna politica di integrazione, ma una demagogica equiparazione di clandestinità e criminalità, viene ridotta la durata del permesso di soggiorno e, soprattutto, quest’ultimo viene legato al contratto di lavoro (un’utopia anche per i cittadini Italiani, figuriamoci per quelli che non lo sono!), con l’ovvia conseguenza di ottenere manodopera docile, sotto costante ricatto, senza alcun diritto e costretta ad accettare ogni compromesso a testa china. Dalla ben più eufemistica denominazione CPT (Centri di Permanenza Temporanea), si arriva a quelle ben più esplicative come CDI (Centri Di Identificazione) per poi culminare con CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione).
          La clandestinità diventa reato, bastante per l’arresto e la detenzione. E il diritto d’asilo, fondamentale visto che la maggior parte dei migranti fugge da dittature, regimi o situazioni politiche aberranti? Lasciato alla discrezionalità dei giudici, che è un po’ come affidarsi alla dea bendata, cieca di fronte alle richieste di quelli che vengono chiamati gli “ospiti” dei CIE, in quanto difficilmente sarà conveniente mettersi a difendere un migrante che non può garantire niente in cambio e che, tuttavia, raramente potrà permettersi un avvocato che non sia quello d’istituto dei CPT.
           "Non avete capito che qui comanda la polizia? Che questo è un territorio separato dall’Italia? Che la legge l’hanno fatta per noi? Non avete capito che possiamo fare tutto quello che vogliamo? Se non volete andare al vostro paese in carne e ossa, vi ci facciamo andare noi a pezzi, pezzi di merda."
Questo è un CPT, un CIE. Stati, confini, cittadini, non cittadini, comunitari, extra comunitari, stranieri … basta una riga tracciata su una carta geografica per dirci chi e cosa è diverso da noi? e perché quello che ci sembra “diverso” deve essere sempre da condannare? Perché siamo obbligati a sentirci vicini ad altri stati solo quando leggiamo “Made in China”, quando entriamo in una catena di Fast Food o in qualche altra multinazionale, uguale a se stessa in ogni parte del mondo?
          Occhi chiusi e ripetete con me: SICUREZZA-Homo homini lupus
XENOFOBIA-figurati se è “straniero”
RAZZISMO-sono popoli incivili
APATIA-vengono qua per rubarci il lavoro, che si stiano a casa!
INDIFFERENZA-e chi li conosce? Non capita a me, alla mia famiglia e ai miei amici. …E CHISSENE FREGA!

Ruggiti-Letizia_e_rivoluzione

domenica 10 giugno 2012

Seta Reale color Savoia


Mi chiamo Furio Garioia e lavoro nella merceria di mia proprietà in via S. Lorenzo a Firenze. Tutti i giorni ho a che fare con signore e signorine ostinate che mi fanno arrampicare su per scaffali o scendere negli scantinati a cercare un macramè antico o un filato di lino purissimo.
Due giorni fa ho scorto la ragazza della mia vita. E’ entrata nel negozio e si è subito bloccata, stupefatta,  a guardare gli scaffali ricolmi di merce. Io allora mi sono mosso, da dietro il banco  e le sono andato incontro.   Lei si è girata di scatto, come se si risvegliasse di colpo da un sogno, e mi ha sorriso.
-          Si, grazie.  Sto cercando della seta di un colore particolare, non so se lei può aiutarmi. – Disse coprendosi per un istante la bocca con la mano destra .
-          Potrei controllare, se mi premette – Sussurrai, quasi scusandomi per il troppo zelo.
Alzai gli occhi su di lei: era bellissima.  Indossava un abito di mussolina color geranio,stretto in vita da una cintura dello stesso tessuto,  sui capelli scurissimi, tagliati "alla maschietta", portava un cappello bizzarro con la tesa corta, chiuso da due fiocchi neri alla gola, non avevo mai visto cappelli così.
-          Se pensa, di esserne capace, grazie.  Ha presente il colore del cielo? – Bisbigliò    avvicinandosi per farsi sentire meglio, ed io percepii un profumo di violette che tutt'ora, quando lo sento, m’inebria i sensi.
-          Azzurro. – risposi istantaneamente.
Lei mosse la sua bella testolina facendo segno di no ed io arrossii.
-          Ha ragione ci sono tante tonalità d’azzurro se mi segue le faccio vedere qualcosa. – Dissi, cercando di recuperare la mia aria professionale, e  sperando, in cuor mio, che lei non si decidesse mai e che quindi mi rimanesse vicina per molto tempo. 
-          La precedo! – Esclamai e raggiunsi il bancone, quasi di corsa, provando a nascondere l'emozione sconosciuta che mi stava pervadendo.
Salii sulla scala di legno,sempre più emozionato, inciampando sui gradini levigati, e, quando arrivai di fronte alle mensole più alte, presi sottobraccio due pezze di tessuto di seta e ridiscesi di sotto dove li aprii, sapientemente, stendendole sul banco.   Timidamente osai guardarla di nuovo, cercando di scoprire dai suoi occhi se li gradisse, e spiegai.
-           Sono due sete diverse ed è diverso anche il tono … -  
Lei mi interruppe di colpo .
-       Non so,  potrebbe  andare ma…..-  E girò  di nuovo lo sguardo a destra e sinistra  come se cercasse ancora qualcosa.
-           Pensa che un po’ più scura la tinta sarebbe meglio? – Esclamai, cercando di attirare l’attenzione della donna più bella che io avessi mai visto, e lei annuì, allora tornai su  per  la scala.  Cercai più in fondo nell'ultima scansia, allungandomi col busto e con le braccia ,e quando trovai la pezza di seta  Reale, del tipo extra sottile, la più bella che avevamo in negozio, tornai giù e andai al banco, dove ne stesi una parte facendola frusciare  sul bancone.
-          Questa è una seta Reale purissima,  la più preziosa in commercio. Guardi  se le aggrada il colore, è  un blu Savoia;      secondo me è  molto bella! – Dissi sorridendole.
-          Sì, mi piace.  Ne prendo quattro metri-Dichiarò senza alzare lo sguardo su di me poi aggiunse:
-          Mi servirebbe anche del pizzo inglese, ne avete? – Enunciò con la sua voce  roca e io mi mossi  di nuovo.
Mi chinai sotto il banco e tirai fuori,  da un cassett,o  due scatole  piatte di cartone ondulato color cremisi,   ne presi una la aprii e  tirai fuori un antico merletto ,ad ago, inglese e glielo mostrai tenendolo fra le dita per dimostrarle la finezza del ricamo. I suoi occhi, d’improvviso,  s’illuminarono ed io mi sentii al settimo cielo.
-          E’ bellissimo, non ne ho mai visti di così belli, complimenti.  Va bene l’intera pezza.. -
-          Grazie, lei è stato preziosissimo – Mi salutò infine, raggiungendo la cassa dove le fecero il conto, e   uscì  in strada.
Io la seguii, spiandola  dalle vetrine per capire dove fosse diretta,  ma   lei sparì ai miei occhi ed io dovetti rimettermi al lavoro, con il cuore a pezzi. Da quel giorno quella ragazza non è mai più entrata nel mio negozio.  Ho inseguito molte volte, nelle strade della  mia città, signore vestite d’azzurro  Savoia o di rosso ma lei non l’ho mai più incontrata.
Poi il tempo è passato, mia madre è morta ed io mi sono dovuto sposare, per avere un aiuto in negozio.  A mia moglie però ho regalato l’abito per le nozze che ho fatto confezionare nello stesso pizzo inglese di quel giorno. 


note di lana di billa

martedì 5 giugno 2012

Note di lana

Se non avessi visto con i miei occhi, Luisa, la ribelle di casa Belletta, tentare di sferruzzare sui ferri della nonna, non ci avrei creduto.
Non perché non fossi certo che ella ne fosse capace ma per la repulsione che lei aveva mostrato da sempre per tutti i lavori femminili , tranne quello ovviamente.
Il giorno stesso, dopo la cena, che mi fu servita come sempre alle sette, la feci chiamare e lei mi raggiunse di buon grado, irrompendo nella mia stanza cupa, abbagliante come la primavera. Si accomodò sulla spalliera della mia poltrona di velluto blu, guardandomi di sottecchi, curiosa di sapere il motivo di quella convocazione imprevista.
- Vorrei che tu riuscissi a spiegarmi , con una parola, – Dissi, cercando di dare enfasi alla mia voce.
- Perché le signore amano lavorare a maglia. - Ma bada bene, birbona, che non avrai il premio che ho in serbo per te se non mi darai una risposta convincente.- Aggiunsi.
Lei mi studiò , perplessa, essendo certa che io non le avevo posto quella domanda a caso ma poiché l’avevo vista sferruzzare con il lavoro sulle ginocchia, allora sorrise beffarda e mi piantò i suoi grandi occhi azzurri , impertinenti, nei miei e scoppiò a ridere.
- E’ per la musica! -.
- Ma che storia è mai questa? La rimbrottai severo, e scoppiai a ridere prendendola in giro per l’assurdità della sua risposta.
- Nonnino mio, quante cose non sai, ma aspetta che ti spiego.- Disse lei orgogliosa poi si alzò in piedi e uscì dalla stanza correndo.
Ritornò dopo qualche minuto con le braccia ricolme del lavoro della nonna e si mise a sedere sul poggiapiedi davanti alla mia poltrona.
Si aggiustò le pieghe della gonna ed iniziò a lavorare intrecciando le maglie sui ferri mentre io la guardavo in silenzio.
E me ne accorsi anch’io, povero vecchio sordo: il ticchettare delle punte dei ferri che sbattevano insieme producevano una strana melodia, ritmata.
Allora lei, resasi conto della mia scoperta, richiamò la mia attenzione sussurrando.
- Ascolta nonno, questo punto è veloce perché è facile ed io lo lavoro in fretta, ma senti questo come è lento, ci metto un sacco a farlo perché è difficile, e ce ne sono tanti altri in un ferro più o meno complicati, se sei paziente ti faccio la musica! –.
La osservai orgoglioso, mentre tutta soddisfatta terminava il lavoro, ripensando alla sua spiegazione.

Allora presi dalla tasca il portafoglio a fisarmonica e tirai fuori una bella banconota nuova di zecca e gliela porsi.
Lei mi studiò ed esaminò bene il suo premio allora sorrise , sfrontata, ed esclamò.

- Vedrai nonnino quando imparo meglio che concertini ti faccio!-.



-billa-

lunedì 21 maggio 2012

Senz'altro questo

Un brutto periodo è senz'altro questo.
Già al mattino l'ansia  avvolge  gli stessi nodi da sciogliere del giorno prima.
Capita sempre in un brutto momento,
come è senz'altro questo.

Non ci sei più negli occhi di tuo figlio:
una sensazione, certo,
sai che non è così,
ma che vuoi farci, capita,
magari anche spesso,
in un brutto periodo,
come senz'altro in questo.

Pensi che forse è questo il tuo problema.
Allora cosa fai?  Cerchi una  svolta.
Ti impegni di più,
tenti di dare il meglio in ogni cosa che fai,
anche se  non ti riesce così tanto bene,
in periodi come questo.

Cerchi allora il confronto con tua moglie.
"Sono cose che succedono anche agli altri.
Rassegnati" ti dice. Ma a te non va giù.
Tu vuoi  lottare,
vuoi provare a cambiare un brutto periodo,
come è senz'altro questo.

E' sì, i conti si fanno sempre al mattino,
quando allo specchio ti guardi e non ti riconosci più
capita sempre in un certo periodo,
come senz'altro questo.


Poesie - Gomitolo

lunedì 30 aprile 2012

Nonno Bondi

          Cosa faceva il resto della giornata? Si è già detto dormire. Ma giova ripeterlo, perché se una giornata è di ventiquattr'ore due terzi buoni buoni eran già belle e persi, anche se lui sentirli definire tali lo faceva molto incazzare.
"Ci vuole tenacia e dedizione"  rispondeva a chi gli chiedeva come riusciva a farcela anche quattordici ore di filato. E c'era da credergli. Per la costanza di sicuro,  visto che cascasse il mondo alle nove era belle a letto; stessa cosa dopo pranzo. Ma anche per la dedizione: bastava fare una giratina dalle parti della sua camera per sentirlo russare come una trattore. Appena sveglio, poi era uno spettacolo!
Dopo tutto quel tempo passato a dormire era ovvio che la vescica gli si riempisse come un pallone. E allora, eccotelo! Si sentiva aprire la porta di camera con delicatezza, seguito da un lento frusciare: adorava strisciare le sue ciabatte per terra quando era ancora stordito dal sonno. Dovete sapere che per raggiungere il bagno il nostro Oblomov del ventunesimo secolo, doveva percorrere l'intero corridoio, per giunta passando davanti alla cucina.

Chi aveva la fortuna  di trovarsi da quelle parti e  percepire quei passi felpati, non poteva fare a meno di mettersi comodo sulla prima sedia che si trovava vicino, e attendere: ne valeva di certo la pena, anche se ci voleva un minuto buono per assistere alla sua passata. Ce l'avete presente un gallo cedrone con la parrucca? Vai, ci siamo!  Stesso collo dritto,  stesso sguardo, stesso passo ma molto, molto più rallentato.
I capelli però erano il piatto forte:  ricci e ispidi; appena sveglio erano dritti come girasoli in aperta campagna. Tornato dal bagno, lo spasso continuava. Com'era? Lo stesso di prima, ma senza girasoli in testa. Non si sa perché se li pettinava lisci in quel modo,  adoperando per gli irriducibili la sua  "pettinella" bagnata.

          Di ritorno dal bagno, il posto dove riprendere tutte le forze, era il solito: sulla sedia accanto al frigorifero.
In preda ai lunghi sbadigli, il gallo cedrone senza parrucca, cercava di svegliarsi, lì seduto nel silenzio generale. Poi, cominciava stropicciarsi gli occhi fino a ridurli alle lacrime.
Successero le guerre puniche una volta che si sentì un tonfo disumano provenire dalla cucina. La nonna aveva deciso di fare il cambio dell'armadio, e siccome non arrivata alla parta più alta, aveva pensato bene di farsi aiutare proprio da quella sedia, inutilizzata per tutto il giorno tranne che per cinque minuti dal  Nonno Bondi, dopo la pennichella del pomeriggio, e dopo il letargo notturno. Quando una volta rizzato da nuore e figli si accorse di essere pieno di dolori e con un grosso bernoccolo in testa, ma  per fortuna con niente di rotto, non ebbe pace fino a che non riuscì ad agguantare il collo della nonna, forse per anticiparle la morte sicura provocata dalle sue soffocanti risate.

           Chi si trovava in cucina sapeva bene che entro poco si sarebbe messo gli occhiali, e quindi si sarebbe accorto di lui. Chiunque tu fossi uomo, donna, bambino, bambina non c'era differenza,  dopo tre secondi, non di più, gli sarebbe arrivata la madre di tutte le domande: "'iccheesifà da mangiare stasera?"
Oppure: "com'è?" Questa invece era la seconda: diciamo la madrina, to! Non si faceva tempo a mettersi a tavola, lui che già da un bel pezzo era al suo posto col suo bel grembialone per non insudiciarsi al collo, che quella domanda scattava:"com'è?"
Com'è cosa? Il tempo atmosferico, veniva da pensare. Com'è la vita, il lavoro, la macchina nuova appena comprata, il rapporto con il figlio, la figlia, la moglie, il marito, com'è la situazione politica italiana, o che so altro.
Non si era ancora sfiorato la sedia su cui ci si metteva a sedere che lui "stachiò", si piazzava in mezzo, senza nemmeno salutarti. E anche se eri da poco entrato in casa, ti poneva la solita domanda: "com'è?"
E se non rispondevi, per fargli capire, che non era ancora il momento, non è che aspettasse, continuava, però questa volta guardandoti nel viso:"com'è?"

          Se poi a cena, c'era gente che non si vedeva da una vita, quel "com'è?", diventava irresistibile, un po' come l'ultima volta che aveva fatto il cacciucco. "Allora Silvia come va il tuo nuovo lavoro?" Chiese Sonia a sua nuora subito dopo essersi messe a tavola.
"Com'è?" chiese il nonno Bondi a Silvia, prendendo la palla la balzo.
"E' buono, non mi posso lamentare" rispose a Sonia.
"E perché dovresti lamentarti?" gli domandò suo padre.
"Rispondevo a Sonia!" disse Silvia.
"E che centra Sonia, l'ho fatto io il caciucco!" Rispose risentito il nonno, per quella risposta che non gli tornava affatto.
"Che centra il caciucco?" Gli chiese Silvia, facendo il giro dello sguardo su tutti quelli seduti a tavola.
"Come che centra il cacciucco? Ehi bella, se non ti piace lo lasci. Anzi me lo mangio io" gli rispose risentito, allungando un braccio verso la sua scodella.
"Guarda che non parlavo del cacciucco, parlavo di altro" lo riprese Silvia, facendo resistenza con la sua mano sulla scodella, sulla quale c'erano un po' troppe mani.
"Se ti andava altro, me lo dovevi dire stamani. O non sei stata proprio tu a dirmi che t'andava?
"Lascia fare!"
"Lascia fare te. Molla sto cacciucco per la miseria" e dicendo così inizio un tiro alla fune tra di loro, soltanto che al posto di una corda c'era il piatto conteso.

          Schetch così erano all'ordine del giorno. Bastava che uno entrasse in una di quelle spirali e il nonno Bondi ti portava con se, in un mondo in cui la logica che regnava era soltanto la sua.

Racconti - Gomitolo
 

venerdì 27 aprile 2012

Tema di quinta elementare di Antonio Gramsci


"Se un tuo compagno benestante e molto intelligente ti avesse espresso il proposito di abbandonare gli studi, che cosa gli rispon­deresti?"
Ghilarza, addì 15 luglio 1903
Carissimo amico,
Poco fa ricevetti la tua carissima lettera, e molto mi rallegra il sapere che tu stai bene di salute.
Un punto solo mi fa stupire di te; dici che non ripren­derai più gli studi, perché ti sono venuti a noia.
Come, tu che sei tanto intelli­gente, che, grazie a Dio, non ti manca il necessario, tu vuoi abbandonare gli studi?
Dici a me di far lo stesso, perché è molto meglio scorrazzare per i campi, andare ai balli e ai pubblici ritrovi, anziché rinchiudersi per quattro ore al giorno in una camera, col maestro che ci predica sempre di studiare perché se no reste­remo zucconi.
Ma io, caro amico, non potrò mai abbandonare gli studi che sono la mia unica speranza di vivere onoratamente quando sarò adulto, perché come sai, la mia famiglia non è ricca di beni di fortuna.
Quanti ragazzi poveri ti invidiano;loro che avrebbero voglia di studiare, ma a cui Dio non ha dato il necessario, non solo per studiare, ma molte volte, neanche per sfamarsi.
Io li vedo dalla mia finestra, con che occhi guardano i ragazzi che passano con la cartella a tracolla, loro che non possono andare che alla scuola serale.
Tu dici che sei ricco, che non avrai bisogno degli studi per camparti, ma bada al proverbio "l'ozio è il padre dei vizi." Chi non studia in gioventù se ne pentirà amaramente nella vecchiaia.
Un rovescio di fortuna, una lite perduta, possono portare alla miseria il più ricco degli uomini.
Ricordati del signor Fran­cesco; egli era figlio di una famiglia abbastanza ricca; passò una gioventù brillan­tissima, andava ai teatri, alle bische, e finì per rovinarsi completamente, ed ora fa lo scrivano presso un avvocato che gli da sessanta lire al mese, tanto per vivacchiare.
Questi esempi dovrebbero bastare a farti dissuadere dal tuo proposito. Torna agli studi, caro Giovanni, e vi troverai tutti i beni possibili.
Non pigliarti a male se ti parlo col cuore alla mano, perché ti voglio bene, e uso dire tutto in faccia, e non adularti come molti.
Addio, saluta i tuoi genitori e ricevi un bacio dal Tuo aff.mo amico Antonio

Echi-Letizia_e_rivoluzione

sabato 21 aprile 2012

Uno sport affascinante

           Osservare un pescatore a mosca in azione, intento a presentare al pesce i suoi artificiali con gesti armoniosi e controllati, è oltremodo affascinante.

          Per i non iniziati, la pesca a mosca può sembrare uno sport difficile, esclusivo e anche costoso; invece tutto quello che occorre per posare sull'acqua una mosca artificiale sono una canna, un mulinello, una coda di topo e una finale.


(Göran Cederberg)

lunedì 9 aprile 2012

Aldo dice 26x1

          “Un urlo di riscatto liberatorio come quello che esplose alle ore 24 della notte del 24 aprile 1945, in tutta l’Italia del Nord, al tanto atteso messaggio in codice gracchiato dalle radio clandestine Aldo dice 26x1. L’ordine di insurrezione generale. Allora toccava a noi."
Con queste parole, Massimo Ottolenghi, tessera 343 del Comitato di Liberazione Nazionale piemontese, ci ricorda che, anche adesso, 67 anni dopo quel fatidico 25 aprile, tocca di nuovo a noi.
Vi vedo già storcere il naso mentre pensate che il fascismo non esiste più.
Io vi rispondo che esiste, esiste ancora, esiste eccome e proprio in questi ultimi anni sta prendendo sempre più piede.

           I nostalgici e i neofascisti si nascondono bene, forse per la vergogna derivata dall’inconscia consapevolezza di quanto siano pericolosi i disvalori che promuovono, dietro a simboli e slogan rinnovati nella forma ma identici nei contenuti di un tempo. Giocano sull’ambiguità, sull’appropriamento indebito di icone come Che Guevara o Peppino Impastato, reinterpretandole grottescamente per strappare consensi in più da qualche mente confusa e da indottrinare.
Forza Nuova, Casa Pound (Blocco Studentesco), il saluto romano dei sostenitori che hanno accolto Alemanno al Campidoglio, la retorica fortemente xenofoba di partiti come la Lega Nord, l’azione mediatica che in questi anni ci ha creato una sorta di “uomo nero” per adulti e piccini, da sbattere in prima pagina quando stupra, uccide, spaccia, sbandierando la nazionalità prima del reato stesso, quasi come fosse un’aggravante,sono solo alcuni degli esempi tangibili di che cosa sia il fascismo oggi.

           Ma, ahimè, oltre ad essere penetrato ai piani alti della società, è un germe ancora ben presente attorno a noi nella vita di tutti giorni: è nelle parole dei ragazzini che rivendicano con orgoglio “la bonifica delle paludi”, “la costruzione delle scuole” come atti gloriosi del ventennio, è nell’accusare i partigiani di “stupro e violenza” (la stessa Casa Pound l’ha fatto in un volantino diffuso a Parma), è nel cancellare la Resistenza dai percorsi scolastici salvo qualche timido accenno,
è nell’ odio per il diverso in nome del quale, solo dal 2005 al 2008, si sono registrati 262 casi di violenza fascista contro giovani dei centri sociali di sinistra, immigrati, gay e zingari, a cui si aggiungono gli atti vandalici a sedi di partito o monumenti partigiani, è nel non inorridire di fronte alle svastiche disegnate sui muri, è nel condannare chi imbratta la tomba di Mussolini e, paradossalmente, lasciare che ogni anno dei fantocci mascherati da Balilla si rechino a Predappio per ricordare il loro “Duce”.

           Il mio articolo, se così si può chiamare, vuole essere un grido d’allerta per tutti i giovani che, nel mare magnum della politica, non sanno che pesci prendere e che si fanno trascinare dalla corrente demagogicamente più forte e che sembra proporre le soluzioni più facili, senza rendersi conto di quanto sia importante opporsi a modelli di questo genere che promuovono solo e soltanto un ideale xenofobo, nazionalista, autoritario, vuole essere una spinta per tutti a riprendersi la politica, quella vera, secondo la quale si deve “ricominciare dagli ultimi”, come sosteneva Don Milani, ripartendo dalle fondamenta che i partigiani ci hanno costruito con il loro sangue e i loro sogni,
vuole essere un incoraggiamento per tutti quelli che sanno ancora stringere i denti e combattere contro quella che ci fanno passare come normalità, la normalità degli immigrati nei CIE e CPT (altrimenti detti LAGER) e di quelli che muoiono in mare cercando di raggiungere le nostre coste nella totale indifferenza, la normalità della condizione delle carceri dove lo scopo della rieducazione è stato sostituito da un altissimo numero di suicidi e condizione disumane di sovrappopolamento e abusi (ricordiamo che in Italia la TORTURA NON È REATO), la normalità del denaro che trionfa sull’uomo, la normalità delle missioni di pace (altrimenti dette GUERRE),
vuole essere un elogio all’empatia, l’unico valido antidoto contro l’odio che ci possa insegnare a difendere i più deboli senza volere qualcosa in cambio,
vuole ricordare che “La politica è valida solo nella misura in cui tiene conto della persona umana”, come sostiene Don Andrea Gallo, prete partigiano e “angelicamente anarchico”, e che, aggiungo io, ogni forma di fascismo, al contrario, è incompatibile con ogni idea di libertà e di bene comune che non sia soltanto l’intersezione di egoismi individuali.

           Smettiamola di tapparci le orecchie per non voler sentire, smettiamola di camminare con il paraocchi senza mai cambiare punto di vista e senza mai esimerci dal giudicare prima ancora di esserci messi nei panni dell’altro, alziamo finalmente la testa, stringiamo
i pugni per le nostre battaglie, ricordando che, combattere con i mulini a vento, a volte sarà frustrante ma mai doloroso quanto lo è non avere utopie, che volare troppo alto, esponendo pericolosamente le ali di cera al sole, è il rischio che vale la pena correre per uscire dal labirinto degli egoismi e reinventare la realtà.

           Combattere il fascismo oggi, come ieri, significa riprendersi il concetto di uguaglianza, usando, come motore per le nostre azioni, la speranza di un mondo nuovo in cui “la morte e il denaro perderanno i loro magici poteri, e né per fortuna né per sfortuna, la canaglia si trasformerà in virtuoso cavaliere; nessuno sarà considerato eroe o tonto perché fa quel che crede giusto invece di fare ciò che più gli conviene; il mondo non sarà più in guerra contro i poveri, ma contro la povertà, e l’industria militare sarà costretta a dichiararsi in fallimento; il cibo non sarà una mercanzia, né sarà la comunicazione un affare, perché cibo e comunicazione sono diritti umani; nessuno morirà di fame, perché nessuno morirà d’indigestione;
i bambini di strada non saranno trattati come spazzatura, perché non ci saranno bambini di strada; i bambini ricchi non saranno trattati come fossero denaro, perché non ci saranno bambini ricchi; l’educazione non sarà il privilegio di chi può pagarla; la polizia non sarà la maledizione di chi non può comprarla; la giustizia e la libertà, gemelli siamesi condannati alla separazione, torneranno a congiungersi, ben aderenti, schiena contro schiena” [E.Galeano]


Ruggiti - Letizia_e_rivoluzione