sabato 17 marzo 2012

Un amico che adesso non ho più

   Anche io ho avuto un amico della mia età con cui andavo d'accordo: si chiamava Carlo, Carlo Bresciani.
Biondo con i riccioli e gli occhi azzurri. Uno che alle ragazze piaceva per forza. Un tipo tranquillo, col quale mi piaceva un mondo parlare. Di che? Cose semplici: calcio, famiglia, ma mai di scuola, quello era un patto; ma di politica eccome, e anche qui la si pensava uguale.

Anche nel dare di coglionazzi ai nostri compagni di scuola, andavamo d'accordo. A dire il vero forse lui si accendeva un po' di più di me ad apostrofarli come tali. Sono sicuro che se anche la si fosse vista diversamente, probabilmente, grazie al suo modo pacato di affrontare le cose, dico probabilmente, avremmo superato anche eventuali diverbi.
Probabilmente, sì.

       Perché dico ciò? Perché di scazzi o presunti tali non ne avevamo mai avuti, ma non so dirvi se ciò sarebbe valso anche per il futuro: questo rimane l'unico dubbio da quel maledetto Giovedì.
         Tutto filava liscio tra di noi. Non vedevamo l'ora di finire le lezioni per incontrarci. Non era necessario porsi un obiettivo: una cosa da fare la si trovava sempre: si fissava e basta.
         "Passi tu? Passo io?" Erano le solite domande che ci si faceva a un quarto alle due non appena si scendeva dal Trenta, partito dal capolinea di Piazza Stazione all'una e venti spaccate.
         "A che ora finisci di studiare?" Una domanda del cazzo, è si perché sapevo bene che mi avrebbe risposto sempre alla solita maniera: "alle cinque e mezzo!"
Per lui che avesse tanto o poco da studiare erano sempre le cinque e mezzo. Anche se c'era da dire che, da circa un mese prima di quel maledetto Giovedì, non è che poi ci si vedeva così spesso.
Sembrava che dal liceo, era lo scientifico quello che frequentava, i suoi professori si organizzassero nel dargli dosi di lezione da potersi sbrigarsi entro quell'ora.
"Facciamo alle sei?" Talvolta gli rispondevo, se non addirittura alle sei e mezzo o anche le sette, non capendo come mai i miei professori, io che di licei facevo il classico, non usassero identiche dosi.
Comunque che fossero le cinque e mezzo, le sei, le sei e mezzo, le sette, noi ci si ritrovava, questo era sicuro, e da quel momento fino a cena si stava insieme. Per un anno è mezzo circa durò, fino di quel maledetto Giovedì.

Una volta fu fantastico! Avemmo il coraggio di andare da quelle teste di cazzo della sezione del partito socialista di Campi, inventandogli che volevamo iscriversi, perché, ci inventammo, affascinati dall'idea del nuovo corso craxiano, così tanto per prenderli un po' per il culo.
Un altra ci infilammo in un ritrovo di ragazzi di Comunione e Liberazione, fingendoci folgorati da una verità colta all'improvviso. E anche quella volta fu da sballo.
L'unica cosa che differiva tra noi erano i tenori di vita. Nonostante le nostre due famiglie avessero su per giù lo stesso status sociale, lui aveva dei soldi in tasca che io mi sognavo: mentre nel mio portafoglio, a farsi compagnia, erano banconote da mille lire, quelle del portafoglio di Carlo erano da diecimila.
Una bella differenza non trovate?

 "Certo i tuoi ti trattano proprio bene, è?" gli chiesi una volta, quando mi sopravanzò, alla cassa del fornaio in mezzo a Campi. Capitava spesso, se non sempre, che a pagarmi il mio pezzo di schiacciata fosse il buon Carlo: vigliaccamente subivo bello zitto quell'utile prepotenza.
Fu sempre dal fornaio che mi scappo quell' "Urca!" Nel suo portafogli c'erano tanti bei cinquantini che avevano preso il posto ai pur sempre decorosi decini.
È che stamani ho riscosso, un credituccio" commentò, facendo spallucce di fronte alla mia più che legittima sorpresa.
"Ecco perché ormai ti si vede poco al tram dell'una e venti, è?" Rilanciai, non so se per scusare la sua fortuna o la mia intromissione.
"Giusto!" Rimarcò con molta naturalezza, dandomi una bella pacca sulla spalla.
Mentre mangiavamo quella schiacciata parlavamo spesso, ma da quell' "Urca!" le cose cambiarono. Non ce la facevo più a dargli una mano a individuare chi erano i prossimi da prendere per il culo: mentre mi incalzava, mi sorprendevo spesso a riflettere su cosa potevano essere i suoi "lavoretti".

Sì, mi sa che fu proprio da quel giorno che qualcosa cambiò. O meglio lui rimase lo stesso, fui io che cambiai. Avevo una sola cosa in testa: vederci chiaro. Capite? Non era per gelosia dei suoi soldi, è che volevo sapere come se li procurava, tutto qua.
Per questo una mattina, nel tram delle sette e dieci partenza Campi con arrivo alla stazione alle sette e mezzo, gli dissi che il giorno dopo sarei uscito prima da scuola. Usci veramente un ora prima il giorno dopo, me lo ricordo bene, ma a Carlo non dissi che era da lui che

Era di Giovedì. Era l'una. Mi accorsi che il suono della campanella era identica a quella classico, o forse no, ma comunque ugualmente liberatoria. Passarono dieci minuti prima di scorgere Carlo: fu l'ultimo a uscire.
Mi accorsi che ad attenderlo eravamo in due: io e un tipo losco arrivato subito dopo di me, piazzatosi subito dietro un albero bello grosso quasi quanto quello dove ero nascosto io.
Carlo sapeva bene che il losco era lì: appena uscito fu proprio da lui che si diresse.

   Non so come non accorse di me: io ce la feci a scansarmi, ma non con la mia cartella, rimasta lì in bella vista, roba che lui conosceva benissimo.
Da dove ero nascosto sentivo tutto.
"L'hai portato il grano?" disse Carlo in modo irridente..
"Dammi le mie bustine, cazzo, fai presto!" Gli rispose il losco con una voce metallica e impastata.
"Prima scucimi quattro cinquantini"
"Erano tre, bastardo!"
"Si ma ora sono quattro!" Gli rispose lasciandoci andare a una risatina che così sardonica non gli avevo mai sentito uscire dalla bocca. "Ma sai, la domanda supera l'offerta ce ne altri come te che che me la pagano il doppio, per cui prendere o lasciare" intimò Carlo con una determinazione che stentavo a riconoscergli.
"Sei una merda!" Gli rispose rassegnato il losco, e a quel punto non sapevo chi mi faceva più schifo.
Ciò mi bastò.
Era di Giovedì me lo ricordo bene. Girai le spalle e me ne andai. Di sicuro so che mi vide. Ma di dopo non ricordo più niente: come ritornai a casa, se poi mi richiamò, o se lo richiamai io, se ci siamo riparlati, o se da allora ci siamo rivisti .
Niente. Proprio niente. Buffo, no? Eppure è andata così, che ci crediate o no. Una amicizia finita senza aver mai litigato. Una amicizia chiusa nonostante si sia andati sempre d'accordo.
Buffo, veramente buffo.

ANNI '70 - Gomitolo
Capitolo: Un amico che adesso non ho più

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