giovedì 27 dicembre 2012

Un titolo ingombrante: il nome della rosa

Un narratore non deve fornire interpretazioni della propria opera, altrimenti non avrebbe scritto un romanzo, che è una macchina per generare interpretazioni.

Ma uno dei principali ostacoli alla realizzazione di questo virtuoso proposito è proprio il fatto che un romanzo deve avere un titolo.



Il nome della rosa - Umberto Eco
Edizione Bompiani
Postille Pag. 507

sabato 8 dicembre 2012

IN DUECENTO GIORNI

Lo sciacquio delle onde e il rumore che esse provocavano, sbattendo e abbattendo gli ostacoli che sbarravano il loro passaggio, le urla degli uomini, che, lungo il fiume, tentavano di rinforzare gli argini per proteggere quel che restava del borgo, il rombo dei tuoni e i bagliori dei lampi, che illuminavano a tratti la miseria di quella gente, riecheggiavano nella vallata.

Se l’inverno appena trascorso se n’era andato con il suo carico di morte per le febbri stagionali, la primavera si stava preannunciando altrettanto fosca.

Ormai le baracche dei tintori ,o quel che ne restava, galleggiavano sul fiume, e i corpi delle capre, con gli addomi colmi d’acqua, scivolavano vorticosamente verso valle, come lenzuoli gonfiati dall'acqua sfuggiti dalle mani d’una lavandaia poco attenta.


Jerome, che per tutta la notte aveva lavorato a ricostruire gli argini, con l’acqua fino alle cosce, continuava a ripetere automaticamente gli stessi movimenti, affastellando pietre, terra e rami che subito scivolavano via nel gorgo impetuoso.

Eppure quella era stata una terra felice, il vecchio vi aveva cresciuto i suoi sei figli, mettendo a poco a poco in piedi la arazzeria più famosa di Francia.
Quel fiume in piena, una volta, era stato un crocevia di mercanti d’arte e di chiatte ricolme di filati che provenivano da Parigi o addirittura dall'Italia, di nobili imbellettati con i taschini pieni di soldi da spendere, di chiatte di gitani, che dai loro barconi richiamavano la gente per vendere i loro utensili introvabili.
E in quei ricordi gli parve di riconoscere il suono del bel canto di Pilar.




Il duecentesimo giorno di lavorazione, l’arazzo era finalmente terminato.

A Jerome toccava il compito più bello quello di tagliare i fili, e così anche quella volta, mentre i suoi figli tenevano ben teso l’ordito, aveva impugnato le forbici facendo cadere il filato d'inizio del lavoro, per terra.
Poi i ragazzi avevano srotolato l'arazzo dal subbio, dov'era avvolto, e steso sulle lastre del pavimento.


Era quello il momento più bello e Jerome lo ricorda come fosse ora; finivano tutti insieme a controllare le sfumature dei colori e la precisione dei tratteggi che, se non erano ben demarcati, finivano con il confondersi con le mezze tinte delle ombreggiature. Il "millefleurs" era perfetto e bellissimo:
in primo piano una donna bruna se ne stava seduta su un tronco, sulla riva di un fiume gonfio d’acqua; l’ombrellino aperto, sotto un cielo plumbeo, abbandonato in un angolo. In lontananza, il panorama di una splendida città fortificata e tutto intorno le piante che crescono sulle rive della Loira.

La prima volta che i "lissieur" vedono il lavoro finito, dopo essersi spaccati la schiena sui telai, con il naso e la testa piena dell’odore acre di piscio di capra, che serve a fissare i colori, le mani spaccate dai filati più forti, è il giusto premio per il loro lavoro o la delusione più grande.

Quel giorno se ne stavano tutti insieme in contemplazione da non accorgersi che Madame Carpenter , che per prima voleva vedere tutti I lavori di Jerome, non era arrivata, e nemmeno il pittore Lassalle.
 Quella assenza donò loro come un brivido di soddisfazione, si potevano godere tanta bellezza esclusiva.
Ciò che accadde, nei momenti successivi, s’iscrisse per sempre nella memoria dell’uomo.

Fu un accrescersi di rumori, dapprima alcune parole urlate dalla strada, poi il frastuono dei pugni che sbattevano sulle porte del tessitore, infine, quando l’uomo e i suoi figli uscirono all'aperto, un forte crepitio di passi, che correvano sui ciottoli, verso la riva.
L’uomo e i suoi figli maschi seguirono il gruppo, correndo anch'essi. verso la riva.

 La chiatta dei gitani era trattenuta, immobile, in un mulinello d’acqua che ora la tirava a fondo per spingerla subito dopo a galla. I flutti spingevano verso riva tutte le suppellettili, che erano a bordo, e le loro strane mercanzie, e la gente, a riva, si affrettava a raccogliere tutti quegli oggetti e a metterli a riparo.
Gli uomini, inermi, fissavano il fiume e la barca sperando di poter intervenire e mettere in salvo quella povera gente, eppure il vortice si era ripetuto diverse volte, davanti ai loro occhi.
Molte ore dopo, quando l’ombra lunga della sera stava calando, il furore delle acque si calmò, ma ormai negli occhi della gente non v’era più speranza per quelle vite, era tutto un muovere di bocche silenziose intente a pregare per quelle povere anime.

Jerome fu l’ultimo a lasciare il fiume, aspettò e aspettò che il volere di Dio si compisse e rimase in ascolto sperando di sentire un grido, un lamento.
Quando ormai anch'egli s’era rassegnato, s’alzò un canto nel buio. Una voce di donna cantava.

L’uomo chiamò sperando che ella gli desse delle indicazioni per farsi raggiungere.- Chi siete? -
- Chi siete?-
- Ditemi vi prego dove vi trovate, vi porterò in salvo..-
Non ebbe nessuna risposta. Allora cominciò a correre lungo l’argine, avvicinandosi più che poteva all'acqua, cercando di scorgere, una sagoma, un’ombra, qualcosa..
Fu il silenzio.
L’uomo, che non si voleva dar pace, si gettò in acqua muovendo le braccia da tutte le parti, per cercare di afferrare quel corpo.
Quando quasi aveva perso le forze, gli sembrò di sfiorare qualcosa con le dita, allora cercò una presa, più salda, e lo trasportò a galla.
I figli, che erano corsi a cercarlo, gli andarono in aiuto e portarono il corpo a riva.

Jerome ascoltò il petto della donna, che era ancora viva, e disse ai figli di portarla a casa.L’adagiarono sulla tavola della cucina e cominciarono a frizionarle le gambe con l’olio di lino, per scaldarla. Quando finalmente gli sembrò che si stesse riprendendo, l’uomo provò a chiamarla.
- Siete al sicuro, siete salva.. -.
L’addome, della donna, si mosse all'improvviso e cominciò a buttar fuori acqua mista a fango, e, quando il suo ventre sembrava essersi prosciugato, ricominciava daccapo a pisciar fuori melma.
Le figlie di Jerome, correvano a svuotare fuori il secchio che ella ricominciava.
L’uomo non voleva arrendersi, ma il volto bellissimo della donna, piano, piano, si stava adombrando di morte.
Capì che presto se ne sarebbe andata.

La strinse a se aspettando che chiudesse gli occhi per l’eternità e lei ricominciò il suo canto incomprensibile.


""De esplendor se doran los aires y el cristal del Ebro se argenta, que a media noche un sol su curso
empieza. Las luces se avecinan, se ahuyentan las tinieblas, el prado ostenta flores, el Cielo esconde estrellas."".

Erano morti tutti, si seppe il giorno dopo, li trovarono sulla sponda opposta di Bourgneuf: un uomo anziano, con la bocca piena di pesci, una vecchia, forse sua moglie, e una bambina molto piccola. Qualcuno disse che non erano forestieri e che , qualche volta, si erano fermati a vendere gli aghi per i telai. Il vecchio, lo chiamavano Negro, e la ragazza era la popolare Pilar, la voce più bella dell’Andalusìa.

Seppellirono quella famiglia di girovaghi sulle sponde del fiume, così che, la giovane, potesse cantare le sue canzoni ai viandanti.
Non volle sentir ragione Jerome, e non consegnò il lavoro ordinato, a madame Carpenter e al suo pittore, se lo appese davanti al letto in ricordo della Gitana.
 Infine, consegnò ai figli tutto quello che aveva e disse loro che ormai era vecchio, che andassero per il mondo.

Quella notte di Primavera mentre gettava, inutilmente, le pietre, la sabbia e i rami nel fiume, neanche si accorse che era giunto il suo giorno, così ammaliato dal canto.

-billa-