sabato 24 marzo 2012

Cosa è la pesca a mosca?

Non si può negare che la pesca a mosca è più un modo di vita che un puro e semplice sport.

Essere un pescatore a mosca spesso vuol dire possedere una speciale attitudine verso le sfumature della natura sopra e sotto la superficie dell'acqua.

Una buona capacità di osservazione, pazienza, immaginazione e rapidità di riflessi sono doti essenziali per essere considerati bravi pescatori a mosca.

A tutto questo va aggiunta una conoscenza quasi scientifica di cosa, dove, come e quando si cibano i pesci.


Göran Cederberg

sabato 17 marzo 2012

Un amico che adesso non ho più

   Anche io ho avuto un amico della mia età con cui andavo d'accordo: si chiamava Carlo, Carlo Bresciani.
Biondo con i riccioli e gli occhi azzurri. Uno che alle ragazze piaceva per forza. Un tipo tranquillo, col quale mi piaceva un mondo parlare. Di che? Cose semplici: calcio, famiglia, ma mai di scuola, quello era un patto; ma di politica eccome, e anche qui la si pensava uguale.

Anche nel dare di coglionazzi ai nostri compagni di scuola, andavamo d'accordo. A dire il vero forse lui si accendeva un po' di più di me ad apostrofarli come tali. Sono sicuro che se anche la si fosse vista diversamente, probabilmente, grazie al suo modo pacato di affrontare le cose, dico probabilmente, avremmo superato anche eventuali diverbi.
Probabilmente, sì.

       Perché dico ciò? Perché di scazzi o presunti tali non ne avevamo mai avuti, ma non so dirvi se ciò sarebbe valso anche per il futuro: questo rimane l'unico dubbio da quel maledetto Giovedì.
         Tutto filava liscio tra di noi. Non vedevamo l'ora di finire le lezioni per incontrarci. Non era necessario porsi un obiettivo: una cosa da fare la si trovava sempre: si fissava e basta.
         "Passi tu? Passo io?" Erano le solite domande che ci si faceva a un quarto alle due non appena si scendeva dal Trenta, partito dal capolinea di Piazza Stazione all'una e venti spaccate.
         "A che ora finisci di studiare?" Una domanda del cazzo, è si perché sapevo bene che mi avrebbe risposto sempre alla solita maniera: "alle cinque e mezzo!"
Per lui che avesse tanto o poco da studiare erano sempre le cinque e mezzo. Anche se c'era da dire che, da circa un mese prima di quel maledetto Giovedì, non è che poi ci si vedeva così spesso.
Sembrava che dal liceo, era lo scientifico quello che frequentava, i suoi professori si organizzassero nel dargli dosi di lezione da potersi sbrigarsi entro quell'ora.
"Facciamo alle sei?" Talvolta gli rispondevo, se non addirittura alle sei e mezzo o anche le sette, non capendo come mai i miei professori, io che di licei facevo il classico, non usassero identiche dosi.
Comunque che fossero le cinque e mezzo, le sei, le sei e mezzo, le sette, noi ci si ritrovava, questo era sicuro, e da quel momento fino a cena si stava insieme. Per un anno è mezzo circa durò, fino di quel maledetto Giovedì.

Una volta fu fantastico! Avemmo il coraggio di andare da quelle teste di cazzo della sezione del partito socialista di Campi, inventandogli che volevamo iscriversi, perché, ci inventammo, affascinati dall'idea del nuovo corso craxiano, così tanto per prenderli un po' per il culo.
Un altra ci infilammo in un ritrovo di ragazzi di Comunione e Liberazione, fingendoci folgorati da una verità colta all'improvviso. E anche quella volta fu da sballo.
L'unica cosa che differiva tra noi erano i tenori di vita. Nonostante le nostre due famiglie avessero su per giù lo stesso status sociale, lui aveva dei soldi in tasca che io mi sognavo: mentre nel mio portafoglio, a farsi compagnia, erano banconote da mille lire, quelle del portafoglio di Carlo erano da diecimila.
Una bella differenza non trovate?

 "Certo i tuoi ti trattano proprio bene, è?" gli chiesi una volta, quando mi sopravanzò, alla cassa del fornaio in mezzo a Campi. Capitava spesso, se non sempre, che a pagarmi il mio pezzo di schiacciata fosse il buon Carlo: vigliaccamente subivo bello zitto quell'utile prepotenza.
Fu sempre dal fornaio che mi scappo quell' "Urca!" Nel suo portafogli c'erano tanti bei cinquantini che avevano preso il posto ai pur sempre decorosi decini.
È che stamani ho riscosso, un credituccio" commentò, facendo spallucce di fronte alla mia più che legittima sorpresa.
"Ecco perché ormai ti si vede poco al tram dell'una e venti, è?" Rilanciai, non so se per scusare la sua fortuna o la mia intromissione.
"Giusto!" Rimarcò con molta naturalezza, dandomi una bella pacca sulla spalla.
Mentre mangiavamo quella schiacciata parlavamo spesso, ma da quell' "Urca!" le cose cambiarono. Non ce la facevo più a dargli una mano a individuare chi erano i prossimi da prendere per il culo: mentre mi incalzava, mi sorprendevo spesso a riflettere su cosa potevano essere i suoi "lavoretti".

Sì, mi sa che fu proprio da quel giorno che qualcosa cambiò. O meglio lui rimase lo stesso, fui io che cambiai. Avevo una sola cosa in testa: vederci chiaro. Capite? Non era per gelosia dei suoi soldi, è che volevo sapere come se li procurava, tutto qua.
Per questo una mattina, nel tram delle sette e dieci partenza Campi con arrivo alla stazione alle sette e mezzo, gli dissi che il giorno dopo sarei uscito prima da scuola. Usci veramente un ora prima il giorno dopo, me lo ricordo bene, ma a Carlo non dissi che era da lui che

Era di Giovedì. Era l'una. Mi accorsi che il suono della campanella era identica a quella classico, o forse no, ma comunque ugualmente liberatoria. Passarono dieci minuti prima di scorgere Carlo: fu l'ultimo a uscire.
Mi accorsi che ad attenderlo eravamo in due: io e un tipo losco arrivato subito dopo di me, piazzatosi subito dietro un albero bello grosso quasi quanto quello dove ero nascosto io.
Carlo sapeva bene che il losco era lì: appena uscito fu proprio da lui che si diresse.

   Non so come non accorse di me: io ce la feci a scansarmi, ma non con la mia cartella, rimasta lì in bella vista, roba che lui conosceva benissimo.
Da dove ero nascosto sentivo tutto.
"L'hai portato il grano?" disse Carlo in modo irridente..
"Dammi le mie bustine, cazzo, fai presto!" Gli rispose il losco con una voce metallica e impastata.
"Prima scucimi quattro cinquantini"
"Erano tre, bastardo!"
"Si ma ora sono quattro!" Gli rispose lasciandoci andare a una risatina che così sardonica non gli avevo mai sentito uscire dalla bocca. "Ma sai, la domanda supera l'offerta ce ne altri come te che che me la pagano il doppio, per cui prendere o lasciare" intimò Carlo con una determinazione che stentavo a riconoscergli.
"Sei una merda!" Gli rispose rassegnato il losco, e a quel punto non sapevo chi mi faceva più schifo.
Ciò mi bastò.
Era di Giovedì me lo ricordo bene. Girai le spalle e me ne andai. Di sicuro so che mi vide. Ma di dopo non ricordo più niente: come ritornai a casa, se poi mi richiamò, o se lo richiamai io, se ci siamo riparlati, o se da allora ci siamo rivisti .
Niente. Proprio niente. Buffo, no? Eppure è andata così, che ci crediate o no. Una amicizia finita senza aver mai litigato. Una amicizia chiusa nonostante si sia andati sempre d'accordo.
Buffo, veramente buffo.

ANNI '70 - Gomitolo
Capitolo: Un amico che adesso non ho più

sabato 3 marzo 2012

Palle che talvolta riemergono

          Avevo pensato troppo allo sciopero del giorno dopo. L'emozione mi aveva giocato un brutto tiro: non riuscivo più ad addormentarmi, e quando capita si sa: se ne inventa di tutte.  
Per un po' ho usato anche una tattica speciale: mi fingevo dentro il mio letto, e fin qui non è che poi ci voleva molta fantasia, ma aspettate perché il letto era piazzato in una inarrivabile nicchia di un ultimo piano di un grande ipermercato, con vista sui piani in basso.
Da non credersi, lo so, ma vi assicuro che questo sistema di  mettermi lì a immaginare il passaggio di gente tutta diversa, mi ha permesso di combattere tante insonnie: soporifere erano le ragazze prese nel reparto profumi a provarsi su di loro  trucchi e belletti; narcotizzanti, i giovani e meno giovani intenti a osservare televisori e computer nello spazio dedicato agli strumenti tecnologici; da sonno sicuro, vecchi signori mentre provano trapani e cacciavite nel corridoi del bricolage.

          Una bella strategia durata fino a quando  una notte finii nello spazio dedicato agli alimentari. Invece di adottare il solito sistema di collocarmi nel piano più alti, volli piazzare il mio letto a pianterreno nel supermercato di Campi, in attesa di vedere arrivare le massaie con i loro carrelli.
Lì per lì l'idea mi sembrava geniale!
Non avevo fatto però i conti con ciò che mi era successo in un certo periodo, proprio in quella Coop. 
I miei genitori avevano preso in affitto una casa in campagna con dei loro amici.  Mai scelta fu così azzeccata, soprattutto per un sedicenne che nel fine settimana aveva campo libero per starsene da solo. E quando il gatto non c'è, si sa, i topi ballano. Buttavo tutto all'aria, ma poi ero bravo a rimettere tutto a posto, proprio come mi avevano chiesto: il letto tornava rifatto; camice e maglie sparivano belle piegate nell'armadio; pentole e coperchi, dopo lavate e asciugate, rientravano nella credenza. È sì, perché nella mia totale indipendenza non solo cucinavo, ma mi compravo, con i soldi lasciati da mamma e papà, anche l'occorrente per farlo; per questo avevo preso ogni sabato sera ad andare al supermercato!

           Fu in quel periodo che mi imbattei in una vecchia signora. L'avevo presa ad osservare perché toccava di tutto; con un sorriso bello stampato sul volto; con degli occhi che se avessero avuto denti avrebbero mangiato di tutto.
La prima volta che la incrociai non feci caso a cosa aveva nel carrello, ma quella successiva eccome: c'era  un pezzetto di pane e una mela.
Il Sabato dopo, e quello dopo ancora, la rincontrai.  Una coincidenza non c'è che dire: alle sei di sera di ogni sabato, me la ritrovavo sempre davanti. E io, magneticamente, non potevo fare a meno di avvicinarmi per vedere cosa avesse comprato, sicuro che i suoi acquisti sarebbero stati gli stessi, se non incrementati con poco altro.
Dopo un po' presi a controllare anche il suo abbigliamento: capii presto che quella vecchia signora dal bel sorriso e vestita sempre uguale, non se la passava un gran che bene.
          Da allora, cominciai a fare  più caso alle persone che  frequentavano i supermercati: mi accorsi presto  che molti vecchie e anziani se la passavano male. Sì, più che una rivelazione fu una vera e propria scossa.
Per farla breve, tutte quelle signore e quei signori incontrati al supermarket avevano deciso di darsi appuntamento attorno al mio letto insieme ai loro dispiaceri: un passa parola che aveva allontanato la possibilità di una serena dormita.
Esattamente come mi stava capitando quella notte prima del mio primo sciopero.  


          Al mattino, davanti alla scuola, erano tutti entrati in classe, meno quattro.  Ma non me ne fregava una mazza.
           "Sarti, se qualcuno lo chiedesse, me lo dici perché facciamo sciopero?” Mi domandò con un tono a presa di culo  il Bianchi; ancora non si raccapezzava perché invece di scegliere come lui un  bar o che so altro, io spendessi una forca per un comizio di un sindacalista in piazza S.S. Annunziata.
           "Vieni alla manifestazione e te lo scopri da te“, gli risposi seccato.
           "Hai ragione, ma come faccio a rifiutare un invito dalle ragazze della II C?” Controbatté scricchiolando un occhio in cerca di approvazione al Pera e al Magris che, impazienti, con il loro bel ciuffo e nelle loro Belstaff nere nuove di zecca, avevano già innestato la prima  marcia dei loro vesponi PX.
           "Ma vieni con noi?" Rilanciò abbandonando il tono scherzoso. " Stai sicuro che se ti dai da fare, te la danno quelle della "C" una bella manifestazione sì, ma  d’affetto." 
           "Sarà per un'altra volta" gli risposi girandogli le spalle.
           "Come vuoi tu" aggiunse divertito, per poi raggiungere con una bella apertura di gas gli altri due.

           Mentre guardavo la mia immagine riflessa sulla porta posteriore del tram, ero sempre più convinto che su di me  cosa da fare ce n'erano eccome.
A partite dai capelli per esempio. Ubbidivano solo alle forbici e il  phon di  Toni; loro, che prima di sottoporsi al suo trattamento, seppur tenuti sempre corti,  facevano  con me quello che volevano. Solo quando mi ci mettevo d'impegno riuscivo a domarli: gli lavavo e gli pettinavo con l'aiuto di una spazzola e dell'immancabile phon;  li stiravo proprio come mi aveva suggerito Toni, addirittura fino a carbonizzarmi il cuoio capelluto. Ma poi sapevo bene che una parte di loro, gli irriducibili, dopo due giorni, si sarebbero rizzati come girasoli alla vista del sole.
Quanto fatica inutile!
D'altronde erano ricci e quindi perché andare  contro corrente? Non ce l'avrei mai fatta a renderli lisci come quelli di tutti i miei compagni di scuola! 
Anche sul mio modo di vestire c'era da lavorarci. Partendo dal mio inseparabile loden verde bottiglia, che nei meandri interni  nascondeva, in un paio di tasche strategiche cucite ad hoc da mia madre, le mie cose più care:  una tasca piccolina all'altezza dell'ascella era riservata ai miei Rayban, unico vezzo di cui andavo fiero; un altra più grande all'altezza della gamba, dava spazio invece al mio quotidiano ben ripiegato in tre parti.
           Mi ero aperto il cappotto completamente  per continuare a rimirarmi. Sentendomi osservato, svolazzai una mano all'altezza del viso, simulando una sopraggiunta sofferenza di caldo, con la speranza di sviare ipotesi su quella mia condotta indecente. I pantaloni erano in velluto marrone: mi accorsi che erano gli stessi dei giorno prima; se non fosse stato per una sbadataggine mattutina a base di latte e caffè, anche il maglione beige sarebbe stato rispecchiato dal posto di quello celeste avuto in dosso. Anche le mie polacchine erano dello stesso colore dei pantaloni, ma quelle per me erano intoccabili.
Ma perché quella mattina dedicavo il viaggio in tram verso la stazione da dove entro poco sarebbe partita il corteo, a rimirarmi, invece di dedicarlo a leggere il mio quotidiano fresco di stampa? Era colpa del pensiero inchiodato sulle ragazze della II C; alla possibilità  forse, dico forse, di accettare la proposta provocatoria  del Bianchi. Ma quel viaggio su me stesso, il vicino arrivo alla stazione  con l'imminente partenza della manifestazione contro il governo Craxi che per decreto aveva messo in discussione il valore della  contingenza nella busta paga  di impiegati e operai, mi convinse che la scelta fatta era quella giusta.

          Girato l'angolo, in fondo al lungo viale della Stazione, mi si presentò davanti la Fortezza.  Mi  accorsi che non ero il solo giovane ad aver deciso di fare sciopero; ce ne erano anche altri che come me aveva lo zaino in spalla; ma la gran parte aveva  tute blu  e al posto degli zaini sulla schiena  aveva un grossa scritta "Pignone"  quasi a coprirgliela per intero.
Non sapendo ancora come aggregarmi, mi venne quindi d'istinto liberare il mio giornale dal cappotto, dargli un paio di belle stirate lungo le tre piegature, e aprirlo. Volevo dedicarmi finalmente alla sua lettura, o meglio quella era la prima intenzione, ma dopo poco la mia curiosità volò oltre su ciò che i giornalisti scrivevano sullo sciopero: desideravo vivere la realtà  in diretta. Assaporare quell'aria  mista di malcontento della vita quotidiana con cui si doveva fare i conti; e di speranza, data dalla forza della convinzione di problemi condivisibili  con tutta quella gente che aveva fatto a meno di una giornata di salario pur di esserci.
Bastava drizzare le orecchie e sentire i commenti che risuonavano  in giro per scoprire che nessun articolo di giornale avrebbe mai trattato delle doti matematiche  di chi scende in piazza: chi usa la sottrazione per individuare  i soldi che possono rimanergli alla fine del mese;  chi si affida a elementi  di statistica, per analizzare nell'ultimo anno quanto volte ha  portato la famiglia al ristorante; chi azzarda previsioni su quando potrà  ritornare con la famiglia al cinema.

          Neanche sul mio giornale preferito si era mai parlato di emozioni; eppure, secondo me, di cose da scrivere su queste, ce n'era eccome.
Il mio giornale avrebbe dovuto parlare  dei cambi repentini di umore  che si provano quando una piazza gremita viene intravista.
Quando si volta  l'angolo e si  vede tanta gente, così tutta insieme che non ti aspetti. 
E' allora che le  analisi saltano, e i problemi si dissolvono in speranza.
È lì che capisci che le tue difficoltà sono anche di altri. Che insieme a loro qualcosa si può fare.
Si deve fare!
Vedendo tanta gente, gli animi si rasserenano.
E se il mio giornale non ce la faceva a capire, a descrivere  quei volti, secondo me doveva pensare a tante palla gonfie tenute con forza sott'acqua, ma che purtroppo, solo delle volte, ahimè, e solo per magia, si riscattano emergendo con tutta la forza possibile. 

           Tante palle messesi in moto tutte insieme, formando una interminabile lunga fila per raggiungere una piazza, dove c'è chi conosce bene i suoi problemi ed è pronto a parlare per offrirgli, almeno con parole, un filo di speranza. 
Tutti a sentirlo, per applaudirlo, per condividere tutti insieme quello che dice.
Per commuoversi e sentirsi finalmente felici. 
Anche se poi,  girato l'angolo della Fortezza, tornando  al lavoro e  a scuola, la mano del destino si sarebbe appoggiata su di loro riportandoli, purtroppo, con forza sott'acqua.

ANNI '70 - Gomitolo
Capitolo: Palle che talvolta riemergono