domenica 19 febbraio 2012

Timidezza

Il rapporto con la notte fin da bambino mi ha sempre creato problemi.

Da piccolo, per prendere sonno, era necessario che mia madre  mi lanciasse dal suo letto non so quante “buonanotti”,  e il mio risentimento non trovava pace fino a quando non percepivo tutto l’affetto che volevo. Poi, appagato, le luci si spegnevano, ma il sonno non arrivava, e io rimanevo solo con me stesso.

Era allora che iniziava un viaggio introspettivo pieno di mille perché. Arrivavo a interrogarmi praticamente su tutto, persino sugli odori che percepivo. Anche la notte sembrava avere un odore diverso, indefinibile e irreale; ne avevo anche parlato con mia madre: le sue sorridenti rassicurazioni finivano sempre nel farla facile, affermando che la notte aveva lo stesso sapore del giorno. A nulla valsero le mie obiezioni basate su semplici percezioni, tanto da arrivare presto a capire che quelle fobie dovevo cominciare a tenerle per me.
 Al buio, solo nelle mie convinzioni, i miei occhi vagavano per la camera, capaci di vedere le cose dilatate,  ma anche di inventarne di nuove.
Per un bel pezzo, per impormi di prendere sonno,  chiudevo gli occhi con forza  e posavo l’orecchio buono sul cuscino per permettere all’altro sordo di costruire la mio piccolo spazio insonorizzato.
Un sfortuna utilizzata bene direte, se non che un battito  insistente tornava sempre a farsi sentire: temevo il suo ritmo che  progressivamente aumentava con l’ansia accumulata nell'ascoltarlo.


Quante volte mi sono domandato che cosa fosse quel battito! Solo anni dopo scoprii che quel rumore con cui avevo convissuto con terrore, non era altro che il rumore del mio cuore.

Nonostante tutto fin da piccolo  ho sempre confidato nella notte per prendere decisioni importanti.

Fu in una di queste che stabilii di farmi avanti con una ragazza. Ci eravamo scambiati un paio di sorrisi alla fermata del tram, e facendomi più vicino al gruppo di amiche con cui si trovava di solito, avevo anche capito dove abitava: pressappoco vicino alla casa di una signora che mi faceva ripetizioni di tedesco.

Quella notte avevo studiato un piano di attacco nei minimi particolari, compreso la tattica per combattere la mia nemica numero uno: la timidezza. Perché sorridere di quel ragazzo e descrivere un suo problema oggi morto e sepolto? Perché la timidezza di allora era il tarlo che torceva ogni attimo della mia vita!

Quell’insicurezza di non piacere alla famiglia, agli amici, alle ragazze e soprattutto a me stesso, mi faceva sentire un diverso e come tale mi trattavo. Solo nella notte, avvolto tra le lenzuola, in un modo o in un altro, riuscivo a scacciare tutti i miei disagi prendendomi tutto il tempo necessario per riflettere.  Tutto di notte era  più semplice! Ma con l’arrivo del giorno le cose si complicavano: dalla teoria si doveva passare alla pratica.

All'una e un quarto, cinque minuti prima che la campanella mi liberasse da quella giornata di scuola, il cuore prese a battermi forte.   Alla fermata del tram l’avrei rivista, mi sarei avvicinato,  gli avrei rivolto parola con la scusa di chiedere se era lei che potevo avere visto dalla parti di piazza San Iacopino.
Da lì dovevo fare appello a tutta la mia incoscienza per arrivare a chiederle se gli andava di vedersi subito dopo la mia ora di ripetizione, magari davanti alla banca di quella piazza: era lì dove avevo idealizzato il nostro incontro. Nella notte però sembrava tutto più semplice, ma ora le cose non sembravano più tali.

"Perché lei e non un'altra?"  Mi domandai non sapendo darmi risposta, mentre prendevo il viale che mi avrebbe portato alla fermata del tram. Perché  lei non era bellissima, non per questo brutta, ma non bellissima. Questo lo sapevo anche allora, ma non era questo il punto e oggi lo so lo posso dire: è che il coglioncello di allora sperava con lei di non fare fiasco.

Quel giorno davanti alla  fermata del tram c'era già il Brizzi, quello  con cui  entro un paio d’anni sarei diventato più che amico, insieme a dei nostri comuni compagni di scuola, tra i quali un certo Magris, era con lui che faceva ritorno verso casa a San Donnino.

I capelli del Brizzi erano freschi di parrucchiere, cadevano lunghi sulle spalle andando a coprire il colletto coreano della sua Belstaff. E mentre realizzavo che tutto di lui mostrava scaltrezza e sicurezza nei propri mezzi, mi accorsi che a quel gruppetto dove si stava pavoneggiando, si erano aggiunte quattro o cinque ragazze tra  le quali la Pirrottina, proprio lei, della quale conoscevo solo il cognome: era lei a cui sarei dovuto propormi.

Appena gli raggiunsi la guardai, provocando in me sensazioni contrastanti: felicità, fu lei la prima a salutarmi, ma poi sgomento: non sapevo più se era il caso di abbordarla.          

Non so bene spiegarvi come andò sul tram, fatto sta che contro l'ultima sensazione che l’aveva fatta da padrone e mi spingeva da un altra parte, una serie di avvicendamenti fatali sul tram, mi portarono ad averla accanto. Fu allora che  trovai la forza di cacciare il cuore in gola, smettere di tramare e, alla meno peggio, mettere in pratica il piano studiato nella notte.

 Nel pomeriggio, cinque minuti prima che la ripetizione finisse, come tre ore prima era successo al suono della campanella, il mio cuore riprese a battere velocemente.

Avviandomi verso la banca, sperai che lei non ci fosse: ciò che mi ero preparato di dirle mi sembravano un monte di sciocchezze;  non mi ricordavo nemmeno quando era previsto di farle capire i miei sentimenti.

 Per fortuna non c’era! Pensai che era doveroso aspettare almeno dieci minuti, e così feci, non sapendo perché visto che la fortuna girava dalla mia parte.

Mentre mi proponevo di fuggire, la vidi da lontano  arrivare. Era sorridente, e camminava col suo solito passo lento, sprofondata nei suoi jeans dai larghi gambali a coprire le sue scarpe dal tacco alto, incapaci di slanciarla più di tanto; spinta verso terra dalla cosa che mi aveva affascinato anche di più dei suoi grossi occhi tondi: il suo gran culo.

Sapevo che in quell’incontro non avrei potuto guardarglielo così come facevo sul tram quando lei era voltata di spalle, intenta a parlare con le sue compagne di classe.

 Prima del suo arrivo mi sorpresi a immaginarmi abbracciato a lei, con i compagni di scuola pronti a prenderci in giro per il suo culo e le mie sbadataggini.

 "Ciao, scusa il ritardo!” mi disse teneramente, appoggiando il suo zaino sul muretto dove ero seduto. “Ciao, non importa” gli risposi in modo impacciato, preoccupato solo a pensare  cosa avrei dovuto dirle dopo.
“Come è andata la lezione? Di tedesco vero?” mi chiese con voce incalzante.
Sì, di tedesco”  gli riposi.         
“È dura la seconda?”
"Sì, abbastanza"  dissi facendomi forza.
E poi, con estrema fatica, chiesi “e la tua prima come va?”
“Non benissimo. Penso che anche io avrò bisogno
di qualche ripetizione. O forse no, visto che vado male in tutte le materie” affermò sorridendo.

 E così iniziò a parlare dei suoi guai, e non solo scolastici. Mentre parlava, la mia mente ritornava a miei compagni che ridevano alle nostre spalle. Sì, lei non era un gran che, ma a me non dispiaceva; avevo notato che era vestita come la mattina, ma in più si era truccata forse con un po’ troppo rimmel, e nelle sue grandi labbra aveva notato anche del rossetto.

A me sarebbe anche piaciuta, lo ammetto, ma il peso delle possibili  critiche dei compagni di cui non mi fregava assolutamente niente, fece si che, esaurita la presentazione dei suoi argomenti, lo spazio che avrei dovuto occupare con la mia parole, lo coprii da un insignificante sospirone.

 "È’ tardi!” mi disse, forse accortasi del mio imbarazzo.
“Rientri a casa?” domandai.
“Sì” mi rispose.

Dopo quella lapidarie parole, ci stringemmo  la mano. E, prima di lasciarmi ricevetti, da colei di cui conoscevo solo il cognome, il suo ultimo tenero sorriso, a suggello di una occasione persa per avere la prima ragazza della mia vita. 


ANNI '70 - Gomitolo
Capitolo: Timidezza